Remondina, obiettivo slam: “La continuità fa la differenza”
Si sente parlare sempre più spesso di “futuro” del tennis italiano, ora che Flavia Pennetta è diventata mamma, che Vinci e Schiavone stanno sparando le ultime cartucce, che Errani e Giorgi per problematiche diverse devono recuperare terreno. Eppure ci si dimentica di chi possiede già un livello di gioco molto alto, pur con classifica ancora lontana dal tennis che conta: parliamo di Giulia Remondina, 28 anni, di Marina di Carrara, papà allenatore di calcio (ex Hellas Verona), mamma e zia maestre di tennis; Giulia ora sembra pronta al salto nell’Olimpo del tennis. Anzi, è pronta. Lo capiamo mentre incrociamo il sguardo timido e fiero nella hall del Roman Sport City, dove è di passaggio in attesa di prendere l’aereo che la porterà in Ungheria per un 25mila dollari. Gli occhi sono quelli di una tigre indomita, addolciti da un’indole mite e tranquilla che in campo però vuole trasformarsi. Ci ha sempre creduto Giulia, anche in questi anni in cui arrancava in posizioni di retroguardia, e ci crede ancora di più, adesso che i malanni fisici pare stiano dando la tregua tanto attesa. Il fisico è statuario, dall’ultima volta che l’avevamo incontrata appare più magra, tiratissima ed in gran forma tanto da poter fare la modella oltre che la tennista. Non mostra la sua femminilità come potrebbe ambire a fare, così come ancora nella sua carriera non ha mostrato tutto il suo incredibile talento. O meglio, lo ha fatto solo a sprazzi, e oggi ha deciso che questo non sarà un rimpianto: vuole giocarsi ogni punto, ogni torneo, ogni attimo della sua vita, adesso che, vicino ai 29 anni, di tempo non ne ha più moltissimo per sbocciare definitivamente. Top 200 in un anno? Possibile, con un obiettivo chiaro: entrare in uno Slam.
“Cristina Marsili, mia zia, è stata la prima che mi ha messo la racchetta in mano. Ero poco più che una bimbetta, poi a 11 anni, vedendo che me la cavavo bene, hanno cominciato a farmi fare i tornei internazionali, gli ETA under 12 che c’erano in Italia, e da lì non mi sono più fermata. Mamma mi ha sempre seguito tanto perché insegna tennis e ne capisce, papà anche spesso mi vedeva e mi vede ancora giocare, anche se non è un tecnico. Entrambi sono stati e sono ancora importanti, sia perché mi hanno sempre spronato a non mollare mai, sia perché hanno creato in famiglia una cultura sportiva di cui mi sono abbeverata fortemente. Del resto con un papà allenatore di calcio è facile confrontarsi dopo una sconfitta, perché anche lui vive di momenti buoni e situazioni meno piacevoli a distanza di una settimana. Il nostro è un lavoro che ti fa stare su una altalena emotiva incredibile dove è facile perdere l’equilibrio se non hai punti di riferimenti forti”.
La tua formazione iniziale?
“Ho passato 15 anni nell’Accademia di Vavassori a Palazzolo sull’Oglio, vicino Brescia, di cui è originario mio padre. Lì Mauro Pezzi mi ha letteralmente inventato come tennista. Lo porto nel cuore perché con lui noi ragazzini ci divertivamo davvero tanto, Mauro è l’ideale per far crescere i più giovani, perché sa conciliare divertimento e lavoro. Faticavamo e non ce ne accorgevamo nemmeno. E diventavamo tenniste e ragazze migliori. Poi quando ho deciso di fare la pro, sono passata sotto le grinfie di Iaio, Alessandro Baldoni, un uomo formidabile, pieno di energie, disposto a lavorare come un ossesso pur di far migliorare i suoi atleti. Ricordo allenamenti davvero duri, 8 ore tutti i giorni con una intensità incredibile, ma quanto mi è servito quel periodo! Ho costruito basi solide e ringrazierò sempre Iaio. Dopo Baldoni mi sono trasferita a Verona da Daniel Panajotti, al secondo anno sono andata via”.
Come mai non sei poi riuscita a spiccare il volo in classifica? Sei stata numero 219 nel 2011, e l’ultimo torneo l’hai vinto nel 2014. Poi cosa è successo?
“Sono tante le componenti per le quali forse non ho ancora espresso il mio massimo potenziale. Tanti infortuni, magari piccoli, non gravi ma che ti bloccano la preparazione e non ti danno continuità di performance. Per esempio, in un momento buono in cui mi sentivo bene sono andata in Messico e a causa dell’altura mi sono beccata una intossicazione muscolare che mi ha bloccato per settimane. Ho cominciato a perdere un po’ di fiducia ed è dura risalire, c’è tanta gente agguerrita nei 15mila. Il livello è altissimo, sono tutte allenate bene e forti. E i punti sono pochi: fai una semifinale in un 15mila, per cui vinci 3 partite, e prendi solo 4 punti. Sai cosa fa la differenza? La continuità nel livello di gioco, non solo durante un singolo match, ma proprio durante la stagione. Si ottiene andando a giocare tanti tornei, del resto se ne azzecchi un paio ecco lì che sali tanto in classifica”.
Quali sono le caratteristiche tecniche che ti contraddistinguono?
“Da piccolina avevo un diritto che tutti dicevano formidabile, avevo l’impugnatura classica del diritto, poi nel corso del tempo ho cambiato il ‘grip’, più verso una western, e ho cominciato sempre di più a ‘sentire’ il rovescio. Tanto che adesso lo considero il mio colpo vincente. Tuttavia proprio per rendere il colpo del diritto più ‘consapevole’ e determinato con i miei nuovi allenatori, i fratelli Restelli e Debora Carmassi, a Marina di Carrara, ci sto lavorando tantissimo. Oggi non si può avere un lato debole a questo livello. Facciamo tantissima tecnica, sull’uscita, e anche sulla manovra del diritto appunto. In allenamento riesce bene direi, poi in partita mi irrigidisco ancora un po’”.
In percentuale, quanto contano le skills tecniche, tattiche, atletiche e mentali per un pro?
“Secondo me 60% mentali, dove intendo motivazione, concentrazione e capacità di riportare in performance le proprie qualità, poi 20% atletica, perché tutte ormai stanno benissimo sul piano fisico, 10% ciascuno tecnico e tattico, perché alla fine tutte noi professioniste possediamo sufficienti armi tecniche per venire a capo di quasi tutti i match, esclusi ovviamente con quelle fortissime”.
Veniamo ad un argomento non banale, i soldi. Giulia mi interrompe subito.
“Ciò che spinge tutti noi fin da ragazzine è la passione. La voglia di giocare. I soldi vengono dopo, e sinceramente non sono una ossessione per me sebbene debba far quadrare i conti a fine anno. E non è facile. Solo le prime 100 o 150 guadagnano, per le altre è dura. Eppure io non ci penso”.
Quanto spendi all’anno?
“Non ti so dire con precisione, forse sui 30mila ogni stagione. Mediamente in un torneo si spendono 500 euro, cifra che si triplica se hai il coach al seguito. Io ne faccio circa 25, e il coach è con me non più di 6 settimane. Poi ci devi mettere le spese per gli allenamenti ed arrivi a quella cifra. Un po’ si recupera di prize money, un po’ con i tornei open, un po’ con Serie A e Bundesliga. In Italia gioco per Lucca, in Germania per Monaco”.
Quanto è importante avere un coach al seguito ai tornei?
“Molto importante. Sia per i consigli che può darti prima e durante il match, sia per il fatto che ci condividi il tempo durante la competizione e per una come me che a volte avverte la necessità di un conforto è decisamente importante. Ti aiuta anche a gestire le sconfitte e i momenti difficili. In questo il discorso economico influisce eccome! La Federazione può aiutare in tal senso, mettendoti a disposizione un coach accompagnatore, però lo fa finché sei giovanissima, dopo devi fare da sola”.
Esiste l’amicizia nel circuito?
“Praticamente tutte le mie amiche fanno parte del tennis, le altre le ho un po’ perdute. Quindi ti rispondo certamente di sì: Alice Moroni e Martina Di Giuseppe sono le ragazze con cui sono forse più legata”.
Nel corso della tua carriera hai alternato diversi allenatori e situazioni di allenamento: meglio il training in gruppo o lavorare da soli?
“Allenarsi singolarmente regala una qualità di lavoro massima, del resto l’allenamento diventa personalizzato e i coach e i preparatori atletici studiano per te sola determinate esercitazioni che possono essere utili per il tuo modo di giocare. In gruppo c’è sicuramente più divertimento, non è da sottovalutare questo aspetto perché anche per un professionista la parte ludica è importante, scambi due chiacchiere, condividi fatica e problemi e il confronto può essere di aiuto. Tuttavia la mia scelta ora va nella direzione dell’allenamento in solitaria, poi se capita di allenarmi con altre ragazze va benissimo”.
Se non vivessi in Italia dove vorresti vivere?
“Sto benissimo qui a Marina di Carrara. Amo il mare, e amo questo mare. Pensa che finora io non ho mai fatto una vera vacanza. Il tennis mi assorbe pienamente, posso anche staccare per qualche giorno però resto qui su queste spiagge al limite per rigenerarmi. Quando smetterò di giocare mi regalerò magari una vacanza esotica, chi lo sa, per ora però sono così concentrata sul tennis che non ci penso nemmeno. Quel poco tempo libero cerco di passarlo con Jacopo, il mio fidanzato. Ora sta facendo la scuola maestri ed è super impegnato”.
Mai una vacanza. Questa è la vita dei tennisti professionisti. Con un circuito di 52 settimane l’anno, in cui si gioca anche a Natale e Capodanno (almeno nel circuito minore), non ci si può rilassare mai. Sale in classifica chi riesce a mantenere un livello prestazionale massimo per un numero superiore di settimane. Chi si ferma è perduto. Ciò fa sentire pesante questo “mestiere” a molti ragazzi, non a Giulia, determinatissima a dimostrare al mondo tennistico che chi non la cita come una futuribile solo per la sua età sta sbagliando di grosso. Non molla un centimetro questa ragazza.
Che differenze hai riscontrato nei metodi di allenamento dei vari coach che hai avuto?
“Sicuramente con Alessandro Baldoni c’era una intensità fortissima. Lui chiedeva tantissimo, voleva vedere il massimo impegno, fino quasi allo sfinimento e mi preparava anche fisicamente molto bene. Era maniacale in ogni aspetto, in senso positivo. Io ero piuttosto giovane, avevo 22 anni e con lui ho ottenuto il mio best ranking. Facevamo cesti su cesti, cento palle a destra e sinistra, quindi la parte atletica era svolta anche durante le esercitazioni tecniche. Insomma ‘intensità’ come parola chiave. In più Baldoni lavorava anche sulle mie sensazioni come tennista e persona, voleva vedermi crescere come ragazza e ci metteva tanto della sua vita e della sua esperienza per trasmettermi certe competenze che poi ti porti anche in campo. Con Daniel Panajotti c’era molto lavoro sulla tattica, e la preparazione atletica era svolta principalmente in palestra e in piscina. In realtà il “fondo”, la resistenza, la sviluppavamo proprio in vasca. Tutto il lavoro aerobico era fatto in acqua. Non so se fosse un bene o un male, tuttavia qualche infortunio di troppo in quel periodo l’ho patito. Con Panajotti ho lavorato anche sotto l’aspetto mentale con Federico Di Carlo, uno dei mental coach più preparati sul mercato. Mi ha aiutato molto confrontarmi con lui, alternando chiacchierate sulle motivazioni ed altri aspetti personali ad allenamenti specifici sul campo con la racchetta in mano”.
C’è una azzurra su cui punteresti particolarmente per il futuro?
“Punterei su Jasmine Paolini. Mi ci sono allenata per due anni, quando sono stata seguita da Furlan, e possiede un tennis aggressivo, molto moderno, ed un ottimo atteggiamento in campo. Ne sono convinta da molto tempo, ed ora i risultati per lei stanno arrivando”.
E tra le ragazze straniere?
“Ti dico Potapova, non è un nome nuovissimo, cioè è già conosciuta ma è davvero una forza della natura. C’è la Juvan considerata fortissima ora in Ungheria nel mio stesso torneo, ma non ho avuto modo di vederla”.
Da bimba chi erano i tuoi idoli tennistici?
“Ero pazza per la Henin, tecnica e con grandissima voglia di vincere. Oggi tifo per Nadal, la sua grinta è coinvolgente”.
Alessandro Zijno