Marco Gulisano: Io, Matteo Berrettini e una settimana da Dio
Marco Gulisano: “ Io, Matteo Berrettini e una settimana da Dio”
Un giorno d’estate di 15 anni fa una famiglia siciliana arriva in un villaggio Valtur a Simeri in Calabria, sistema i bagagli e si prepara per una bella vacanza sul mare. Papà Gianni è un appassionato di tennis e buon giocatore, e suo figlio Marco ha 7 anni e frequenta la SAT a Catania dimostrando ottime attitudini. Nel villaggio c’è un campo da tennis e il caso vuole che nello stesso momento un altro papà, il romano Luca con suo figlio Matteo abbiano il gusto di “scambiare due palle” anche in vacanza. Luca e Gianni si incontrano, condividono lo stesso amore per lo sport e il tennis in particolare, entrano in sintonia e anche i due bambini Marco e Matteo si divertono insieme a rincorrere le palline. Nasce così una amicizia, quella tra Marco Gulisano e Matteo Berrettini, che nel tempo viene coltivata anche grazie alle famiglie. Intanto i due ragazzi continuano a giocare a tennis oltre che a volersi bene: sono affini come carattere, tranquilli e con la gioia di vivere. Si incontrano spesso nei tornei e vince quasi sempre Matteo, ma non c’è alcuna pressione da parte delle famiglie. Papà e Mamme sono sufficientemente esperti da sapere che uno su mille tra i ragazzi che girano i tornei giovanili ce la fa a diventare PRO. E non si fanno illusioni. Si gioca per vincere, certo, per confrontarsi, soprattutto con se stessi, si cerca il miglioramento ma nel pensiero delle famiglie c’è solo la prospettiva di crescita umana per i propri ragazzi, l’esperienza dell’impegno, della disciplina e lo sviluppo di valori da ritrovare anche fuori dal campo. Passano un bel po’ di anni e Marco gioca dei Futures, con alterna fortuna, Matteo si riprende da un brutto infortunio alla caviglia cominciando a vincere tante partite. Il boom per Matteo è a fine 2016 con la finale al Challenger di Andria persa da Lucone Vanni dopo un torneo meraviglioso che l’ha fatto conoscere meglio all’Italia tennistica. Un giorno di Luglio 2018 Marco sta giocando un Open e come fa spesso scrive un messaggio di saluti a Matteo il quale gli risponde con “Cosa fai tra 2 settimane? Ti va di accompagnarmi a Gstaad? Vincenzo Santopadre non viene, mi farebbe piacere condividere con te questa esperienza.”
Marco, hai risposto subito di sì, vero?
“Non ci ho pensato due volte, sapevo che sarebbe stata una bellissima settimana e avevo tanta voglia di passare del tempo con Matteo, per altro così denso di intensità emotiva come in un 250 ATP.”
Ed è stato un trionfo.
“Matteo ha giocato davvero bene, ha vinto singolare e doppio, non si poteva chiedere di più. Ha servito benissimo in tutti i match e in finale ha fatto un capolavoro contro Bautista Agut. Forse è la partita che ha giocato meglio. In doppio il merito va diviso con Bracciali che è davvero un fenomeno tecnico. E pensa che Matteo veniva dal torneo precedente a Bastad da cui era uscito deluso e sentiva di non aver giocato bene (eliminato al secondo turno dallo svizzero Laaksonen ndr). Per questo si è prefissato l’obiettivo di cercare solo le sensazioni giuste, di provare i campi e le palle senza allenarci troppo, ma il giusto.”
Cosa ti resta di questa esperienza?
“Per me che adesso lavoro in Accademia a Catania con Fabio Rizzo e Alessio Di Mauro è stata una esperienza davvero fondamentale e formativa. Ho solo 22 anni, ma ora come atleta faccio solo Open e il nostro obiettivo come team è quello di portare i ragazzi più promettenti al professionismo. E ho scoperto una parola chiave: semplicità. Ho visto da vicino campioni come Bautista Agut o Joao Sousa, gente che da anni è in top 50, dove si fa il tennis di altissima performance, e ciò che colpisce è quanto siano semplici e disponibili. E ti accorgi anche di quanto siano professionali, fanno tutto ciò che deve fare un tennista PRO, che non è solo colpire tante palle ogni giorno, o lavorare sugli aspetti tecnico-tattici del loro gioco, bensì curare l’alimentazione, il proprio corpo, la salute fisica e mentale. Questo implica fare il professionista 365 giorni l’anno per 24 ore al giorno, il tutto col sorriso sulle labbra. E poi è fondamentale il concetto di “equilibrio”. Giri i tornei in vari continenti per 30 settimane l’anno ed è troppo importante saper affrontare con serenità le varie difficoltà, che non sono solo gli avversari in campo, ma la gestione dei rapporti sentimentali, saper mangiare correttamente, riconoscere le proprie emozioni e riuscire a trovare il modo di star bene con se stessi. Non è così facile.”
Avresti pensato quando eravate più piccoli che Matteo sarebbe diventato così forte?
“Nessuno poteva pensarlo, per il semplice fatto che la variabili sono infinite, bisogna sempre vedere come un bimbo affronta lo sviluppo fisico, poi quando diventa adolescente e in più c’è la variabile infortuni o possibili intoppi.”
Matteo però aveva qualcosa che faceva intuire questi sviluppi?
“Certamente. Ciò che saltava subito agli occhi quando ci giocavi era la facilità di lettura delle partite. Fin da piccolo, e questa caratteristica ce l’hanno in pochi. Non era uno che sparava palle e basta, sapeva gestire i match, sapeva variare e già da ragazzino si capiva che aveva un amore infinito per questo sport, unito ad una intelligenza naturale, buona mano, capacità di giocare a rete.”
Tu che ne hai seguito tutte le tappe della sua carriera, in cosa è cresciuto Matteo?
“Ha saputo lavorare su tutte le skills. In questo è stata brava la famiglia e lui stesso a scegliere Vincenzo Santopadre, ed è stato anche fortunato a trovare con questo coach un feeling incredibile che va oltre il solo aspetto tecnico. Matteo è un professionista esemplare, c’è da dirlo, tuttavia non è così scontato che atleta e coach, anche se eccezionali entrambi riescano così bene a comunicare. Matteo Berrettini ha avuto poi questo sviluppo atletico molto importante che da una parte lo ha reso alto e forte, dall’altro però lo ha esposto al rischio infortuni. Posso dirti che il servizio è davvero diventato un fattore, che il diritto è sempre stato il suo punto forte, e che nel corso del tempo ha saputo lavorare su tutto. Anche nel rovescio vedrete che diventerà sempre più sicuro. Ma ciò che davvero ha fatto la differenza, e me ne sono reso conto definitivamente in questa settimana trascorsa con lui, è stata la capacità di “tenere” a livello mentale. E’ qui che si fa la differenza, e Matteo ora ha un rendimento medio nel match senza grossi picchi, sa gestire le emozioni sia nei momenti positivi che in quelli negativi e sappiamo bene che la differenza tra i giocatori medi e i top player è spesso qui che si gioca. Non sottovaluterei poi l’apporto che sta dando anche Umberto Rianna che lo segue per la FIT.”
Quale è alla fine la superficie in cui Matteo può giocare meglio?
“Guarda alla fine bisogna saper sfruttare le caratteristiche di campo e palle a proprio vantaggio e mi sembra che anche su questo tema Berrettini sia diventato molto maturo. Lui ha nel servizio e nel diritto le sue armi, sa giocare bene su terra e forse è proprio la sua superficie migliore perché sa scendere bene colpendo basso e può “armare” bene il suo diritto, perché ha più tempo per preparare. E’ ovvio che sul cemento anche può togliersi tante soddisfazioni, se vuoi crescere non puoi limitarti ad avere una superficie in cui ti esprimi al massimo ed altre in cui non senti sensazioni positive. Devi saper trovare soluzioni. Su terra lui è così bravo a cambiare diagonali che la ritengo una superficie adattissima per lui. A Gstaad è stato anche favorito dalla velocità dei campi che ha esaltato le sue caratteristiche.”
Il suo rapporto con la fidanzata Lavinia?
“Lavinia (Lancellotti ndr) pur giovanissima è molto matura ed è assai intelligente. Essendo anche una giocatrice, sa quanto è importante lasciare gli spazi e i tempi giusti all’atleta che è impegnato in performance, e quindi sa come affrontare i tornei insieme a Matteo.”
Di Matteo Berrettini sappiamo molto cose, adesso che è salito all’attenzione delle cronache sappiamo che è una freccia all’arco italico del tennis, che potrà fare molto bene anche in futuro. E di Marco Gulisano cosa sappiamo? Ve lo dico io, questo ragazzo già così maturo a 22 anni, diventerà un coach di assoluto livello, perché sa circondarsi delle persone giuste e sa prendere laddove c’è da prendere. Anche come atleta è ancora in tempo, ovviamente, eppure sembra davvero lanciatissimo come Maestro, già adesso, stimatissimo a Catania nell’Accademia di Di Mauro e Rizzo.
Alessandro Zijno