Andrea Stoppini, non solo il demolitore di Agassi: “La programmazione è fondamentale, In Italia abbiamo tanti coach bravi”

Andrea Stoppini EX Numero 161 ATP, intervistato da Alessandro Nizegorodcew per Sportface.it
Dove ti trovi e come stai
“Sono a Riva del Garda, ho la fortuna di avere un giardino, ho un bimbo piccolo, e stiamo bene. Però ho tantissimi amici a Bergamo, ho vissuto tra Bergamo e Brescia per molto tempo e infatti ho perso anche un caro amico a causa di questo virus.”
La tua prima parte della tua carriera, partendo da Junior
“Non ho mai vinto così tanto a livello Juniores, a parte qui dalle mie parti. A livello Under 12 c’erano solo 3 tornei, Napoli, Rovereto e Porto San Giorgio, e poi c’era la Lambertenghi. Under 14 c’erano i tornei internazionali, Genova, Arezzo che vinse Luzzi e io non feci chissacchè. Vinsi però a Pescara. Poi andai al Centro Tecnico Federale a Cesenatico, dopo di che sono stato al Tennis Milano, prima di trasferirmi da Vavassori. L’ultimo anno da Junior finii la stagione intorno alla posizione numero 70 ITF.”
Hai iniziato la carriera professionista nel 96 97, in cui c’erano ancora i satelliti.
“Sì, io ho vissuto il momento di passaggio al tennis ITF Futures, quello moderno. Ai miei tempi rispetto ad oggi eravamo quasi degli amatori, non nel senso tecnico ma come organizzazione. Oggi anche gli Juniores sembrano professionisti, invece prima andavi, provavi, molte cose non le sapevi:non c’era internet, che è stata una rivoluzione per il mondo del tennis come per tutto il resto. C’erano pochissimi tennisti che giravano con gli allenatori, anche perché molti coach non volevano nemmeno viaggiare. Nel circuito dei Satellite qualche soddisfazione me la sono presa, perché ne ho vinti 3, vincendo anche 3 tappe. Per me i tornei Satellite sono un bel ricordo.
Nel 2004 arriva il primo risultato di rilievo al Challenger di Recanati, facendo finale
“Già nel 2001 ero arrivato numero 280 ATP, poi come ricordavi tu da quella finale a Recanati sono salito e mi sono guadagnato la possibilità di andare a fare le quali agli US Open, e lì mi si è aperto un mondo. Riuscire a giocare uno Slam significava entrare in un altro mondo, nel tennis che contava, con sensazioni meravigliose.
Tu hai affrontato sia Djokovic e Del Potro da giovanissimi, che impressione ti fecero?
Con Del Potro ci giocai a Reggio Emilia e successe una cosa strana. Dovevamo giocare la sera dopo un doppio, ma cominciò a piovere e ad un certo punto il giudice arbitro ci chiese se preferivamo giocare quella sera stessa oppure il giorno successivo dove però chi vinceva doveva giocare il doppio turno. Io mi sentivo più forte, lui aveva 16 anni e aveva già perso in Italia altre partite e così scelsi di giocare: entro in campo convinto, ero anche sopra il primo set, poi ad un certo punto non metto più una palla in campo e finisco per perdere 6-3 6-1. Finimmo comunque dopo mezzanotte e fu una situazione strana per entrambi. Si vedeva che era già forte comunque. Con Djokovic ho giocato a Sanremo che lui era già 140 ATP più o meno, ci ho perso in tre set e lui poi vinse il torneo. Lui era già in rampa di lancio. Un aneddoto interessante ce l’ho con Tsonga: eravamo in un Futures in Francia, sul “ghiaccio”, campo velocissimo e ci perdo. Esco dal campo e dico “con questo su terra ci vinco 6-0 6-0”. Il mese dopo lo ritrovo a Monza e ce l’ho messa tutta per fargli il cappotto e ci andai vicinissimo, perché vinsi 6-0 6-1. Giocai nel 2006 con Kevin Anderson a Indianapolis nel secondo turno di quali: ci vinsi al terzo ma mi colpì il fatto che uno alto così, quasi 2 metri, si muovesse tanto bene.”
Poi arriva la famosa partita con Agassi con tutto il torneo di Washington. Ricordiamo che vincesti 6-3 6-4 in quell’ATP 500 che Andrè Agassi aveva vinto ben 5 volte
Miglior tennis tra il 2008 e il 2009 come prestazioni, però certo quella partita lì resta nella storia. Giocare con 8-10mila persone sugli spalti, non ho perso nemmeno un servizio, un momento esaltante. Purtroppo non c’è un video di quella partita, pagherei per rivivere quella atmosfera al di là dell’aspetto tecnico. Quel giorno lì fu meraviglioso, anche se forse lui non era in formissima. Per altro Agassi ha vinto 5 volte quel torneo. Io arrivo al torneo e sul tabellone c’era già il nome di Agassi con lo spazio bianco, perché attendeva un qualificato. E il venerdì nella stanza dei giocatori nel torneo c’era la tv che trasmetteva Agassi che stava perdendo con Gonzalez al terzo set. Ne frattempo stavo conoscendo per la prima volta Fabio Fognini, che era lì con Naso e Caperchi. Io ero lì senza allenatore e abbiamo vissuto questa esperienza insieme. Vinsi l’ultimo turno di quali con Gambill e il giorno dopo andai la mattina ad allenarmi: nella iscrizione per gli allenamenti vidi lo spazio vicino a Safin sul foglio, perché aspettava di allenarsi con qualcuno. Ed ecco mi lì, nello stesso giorno, riscaldamento con Safin e sfida con Agassi; pensai che mi era andata bene, non dovevo nemmeno pagare le lezioni (e ride ndr). Safin è un tipo pazzesco, sempre col sorriso, davvero un figo. Insomma approcciai quella partita con Agassi come fosse il premio per la mia carriera, come andare al luna park, con molta serenità. Ma quando hanno aperto le porte per farci entrare in campo c’è stato un boat pazzesco, un tifo incredibile, il classico tifo americano che mentre giochi esulta al tuo doppio fallo, anche se poi alla fine se vinci ti applaude. Caperchi prima del match mi fa “guardo un set, poi torno in albergo che domani con Fabio (Fognini ndr) ci alleniamo presto.”. Poi però ero sopra ed a ogni cambio campo ridevo, non ci credevo nemmeno io.”
C’era una leggenda che diceva che tu non volassi con l’aereo, che avessi paura
“Ma no dai, in realtà l’aereo lo prendevo anche se forse all’inizio non amavo viaggiare. Certe leggende sono figlie magari di una mia immaturità all’inizio della carriera, quando volevo fare un po’ di testa mia. Certamente se avessi cominciato a girare prima soprattutto in America, sarebbe stato meglio, perché le condizioni e le superfici erano adatte a me, con terreni che davano rimbalzi bassi e un po’ più veloci.”
Le partite con Isner.
“A Cincinnati era difficilissimo rispondere al suo servizio con la palla che rimbalzava altissima, mentre a Brisbane con più umidità, campi e palle più lenti, mi sono trovato meglio e ho vinto 6-4 6-4”
Australian Open nel 2009, fai primo turno partendo dalle quali e trovi Djokovic.
“In quel periodo ero finalmente diventato più maturo, avevo capito certi aspetti del tennis professionistico e l’importanza di programmare. Nell’ultimo turno di quali a Melbourne affrontai il tedesco Stadler in una partita stranissima, in cui vincevamo solo i game col vento a favore. Poi la sfida con Djokovic che per altro era il detentore del titolo. Lui non era nel suo momento migliore, era passato dalla Wilson alla Head bianca e io avrei potuto strappargli almeno un set se non fossi stato stanchissimo. Faceva anche un caldo infernale. Poco dopo a San Josè ho perso 7-6 7-6 con Del Potro che era numero 7 del mondo e forse quella è stata la miglior partita della mia vita. Ho avuto anche un set point.”
Tu sei arrivato 161 nel luglio del 2009, vinci a Izmir e sfiori la qualificazione a Wimbledon
“Piccolo aneddoto di quell’anno. Giocavo con Stakhovsky, perdevo nettamente 6-3 3-1 40-0, sembravo già fuori dal match, ma ad un certo punto lui comincia a servire più piano, perde la testa e io vinco al terzo. Lo avevo già battuto ad Izmir, e ha spaccato tutte le racchette: è impazzito, del resto era il primo fuori dal main draw, era avanti un set e un break poverino, certo che fosse arrabbiato.”
Cosa succede dopo il best ranking?
“In quella stagione ci fu una rivoluzione del ranking, perché ad inizio anno avevano raddoppiato i punti, c’era stata un po’ di confusione, e quindi quel 161 ATP è anche un po’ bugiardo, perché molto non perdevano i punti dell’anno precedente. Era un 161 che valeva un 140. Poi vado a fare la tourneè americana e mi gira male, perdo in due torneo 7-6 al terzo, e invece che tornare a casa e recuperare le energie ho deciso di continuare a giocare. Ma più giocavo e meno buone sensazioni sentivo. Ero svuotato, probabilmente avevo viaggiato e giocato troppo e mi ero gestito male. L’anno successivo è stato costellato di infortuni, caviglia, braccio e forse un po’ frettolosamente dopo qualche tempo ho deciso di smettere: ero ancora intorno alla posizione 400 del ranking, col senno di poi un po’ di rammarico c’è, anche perché dal 2012 hanno anche cominciato ad alzare i prize money e avrei potuto forse ancora dire la mia. Se ho un rimpianto è non aver avuto dietro un progetto, una programmazione, e non seguire una linea precisa. Conoscendo Caperchi, Fognini, ed altri, mi sono accorto che stavano proprio in un’altra dimensione come tipo di progetto rispetto al mio modo di andare avanti che era più improvvisato. Una cosa che mi è rimasta impressa è che Fognini quando era numero 250 del mondo a 19 anni, si paragonava già a Rafa o Nole, e questo ti fa capire la prospettiva, gli orizzonti che miravano. Io non ho mai avuto questa ambizione, questa mentalità, che può sembrare una cosa banale perché comunque mi allenavo seriamente, facevo tutto quello che bisognava fare ma senza quella progettualità che dicevo prima.”
Metti quindi adesso a frutto come allenatore queste esperienze:
“Sì, bisogna investire sulle persone, abbiamo tanti coach bravi in Italia, tanta gente valida. Sono i giovani che devono investire sugli allenatori, sui maestri, è da lì che si parte invece che pensare che siano gli allenatori ad investire sui ragazzi. Alcuni vanno in Spagna ma anche qui in Italia abbiamo i Santopadre, i Vagnozzi che possono dare tantissimo, solo per citarne due perché ce ne sono tanti.”
Alessandro Zijno