Mosè Navarra: “Il talento è un bonus al servizio di perseveranza, professionalità e impegno. Questo insegno ai miei ragazzi oggi”

Mosè Navarra, ex numero 119 ATP e Tecnico FIT racconta la sua carriera, le imprese e qualche rimpianto ai microfoni di Alessandro Nizegorodcew per Sportface.it
Dove ti trovi e come stai
“Sto a casa come tutti, all’ingrasso come tanti.”
L’attività giovanile, sei stato numero 1 del mondo, finale al Roland Garros Junior con Pavel, semifinale agli US Open Junior.
“Io ho iniziato facendo tornei Under 12 e 14 e mi misi in luce a Casinalbo, dove partendo dalle qualificazioni mi feci notare e quello mi valse anche la convocazione a Riano al Centro Federale. Fu una grande fortuna, perché mi consentì di allenarmi come un professionista con strutture e tecnici che mi hanno permesso di crescere. Io venivo da un circolo piccolo, facevo l’agonista ma non avevo i mezzi, e come me molti altri: la FIT permise a me e molti altri di provare a realizzare il proprio sogno. Da quella cucciolata siamo usciti in tanti, Pescosolido, Furlan, Gaudenzi. Fu una benedizione, soprattutto per quei tempi. La mia crescita fu abbastanza veloce, dai 15/16 anni mi misi in luce, fui convocato nella Winter Cup e fu tutta una ascesa che mi portò a vincere il mio primo torneo importante in Australia che era l’equivalente di Traralgon di oggi (il torneo che si gioca prima degli Aus Open Junior NDR). Per spiegare come erano diversi i tempi, il torneo si giocava sull’erba e io andai con le scarpe per la terra battuta. Già all’epoca mi piaceva il gioco d’attacco e quindi sull’erba mi trovavo già bene. Già in quella stagione feci finale a Montreal che precedeva gli US Open Juniores, e chiusi la stagione in top10 tra i boys. Feci bene a tutti gli Slam, visi Salsomaggiore e il livello era molto alto anche perché i tornei erano un decimo rispetto al numero di oggi. La finale di Parigi con Pavel la giocai con dei cerotti antinfiammatori alla schiena, quindi qualche rimpianto c’è. Anche in una altra occasione, in semi agli Us Open mi infortunai e quella volta mi portarono fuori a braccia. La cosa bella è che nella stanza del fisio c’era Stefan Edberg che mi rincuorò con belle parole e qualche mese dopo al torneo di Milano mi incontrò di nuovo e mi chiese se il giorno successivo volevo allenarmi con lui. Allenamento bellissimo al Forum, sul centrale la mattina, e lui era tra i primi 3 o 4 del mondo, e io avevo 17 anni.”
Il tuo stile di gioco
“Fantasioso, aggressivo, mi piaceva creare il gioco e non subirlo e avere l’iniziativa. Facevo uso dello slice spesso e volentieri per attaccare e non per difendere, così come venivo a rete appena le circostanze lo permettevano. Mi piaceva il serve and volley e avevo un gioco moderno. Secondo o terzo colpo provavo a chiudere.”
Poi già da giovane sei arrivato a ottimi livelli. Un grande Wimbledon già a 22 anni partendo dalle quali e facendo terzo turno.
“Dai 19 ai 21 anni ho attraversato momenti non facili. A quei tempi la politica della FIT prevedeva che i ragazzi dopo i 18 anni venissero lasciati, dopo che ti avevano formato. Premetto che avevo avuto la fortuna di essere stato seguito da Tomas Schmidt, battendo ben 9 giocatori che erano tra i primi 150 ATP. Avevo fatto una programmazione ambiziosa provando le quali degli ATP invece che tornei inferiori, e a quei tempi se non ti qualificavi non prendevi punti, pur magari perdendo solo all’ultimo turno di qualificazione. Quindi punti pochi, poi a dicembre mi ruppi anche la caviglia: ero ancora a Cesenatico e iniziarono anche un po’ di problemi di rapporti, qualcosa si incrinò. Fu in quel momento che iniziò un periodo non facile, probabilmente mi mancò una guida, ero anche un ragazzo un po’ ribelle e feci fatica. Arrivai a quel Wimbledon davvero grazie più ad un talento, a qualità tennistiche, che a un lavoro specifico o grazie a un progetto. Fu una galoppata incredbile. Io arrivai al primo turno di quali alle 12.30 del lunedì (perché avevo vinto la finale a Braunschweig il giorno precedente) dopo un viaggio pazzesco dalla Germania e dovevo giocare alle 14. Questo dimostra quanto fu improvvisato più che preparato quel torneo. Fino a quella clamorosa vittoria con Costa 9-7 al quinto set dopo essere stato sotto. Tra l’altro Costa aveva battuto Chang, non uno qualsiasi, al primo turno. L’erba già in quell’anno era abbastanza lenta, le palle anche erano lente. Poi c’era Massimo D’Adamo a darmi una mano, ma io ero un po’ ribelle, facevo di testa mia, in quel momento riconosco che mi mancasse la disciplina. Avrei avuto bisogno di ordine e quindi fu un periodo in cui feci fatica. Però forse avevo paura del fallimento, e mi resta questo rimpianto di non sapere quali fossero i miei veri limiti. Questa specie di “freno” me lo sono portato appresso anche dopo in carriera.”
Quanto sei riuscito a portare la tua esperienza ora nel lavoro con i giovani?
Mi è servita tanto. Ho cominciato subito a lavorare con professionisti, cioè con Bhupathi e Mirnyi, e poi vedendo questo mondo con altre vesti, cioè da fuori, ho capito molte cose, ho riflettuto e ho potuto rendermi conto di dettagli o cose importanti che ti sfuggono quando sei dentro questo frullatore che è il mondo tennistico da giocatore. Ad esempio mi sono reso conto di come non sono stato in grado di affrontare le mie paure, e oggi questo mi è utile per cercare di aiutare i ragazzi. L’esperienza mi è servita anche per capire in che modo migliorare giorno per giorno, attraverso confronti con gli altri allenatori, o con gli atleti o anche con persone che non fanno parte dell’universo tennistico.”
Nel ’98 ti qualifichi al Roland Garros, poi perdi con Kafelnikov; nel 99 poi fai un bel salto e arrivi al tuo best ranking al numero 119 ATP.
“E in quel momento risuccede quello che non è auspicabile per chi vuole fare il tennista professionista e raggiungere il proprio massimale. Come mi era successo altre volte è come se inconsciamente mi sentissi appagato, bloccato, e il tennis non era più LA priorità assoluta. Cominciai a frequentare quella che poi è diventata mia moglie, feci scelte diverse rispetto a girare il circuito come si doveva e poi alla fine il conto si paga. Poi mi arrivò una fascite plantare che mi perseguitò per più di un mese. Sono stato bravo a crearmi tante opportunità, e altrettanto bravo a perdere le occasioni che mi ero riuscito a guadagnare. E n0n voglio oggi che i ragazzi giovani possano perdere le loro opportunità.”
Nel 2001 c’è la famosa sfida di Davis, battendo Nieminen
Io arrivo in Davis da underdog. Nessuno pensava da fuori che potessi fare bene così in singolo e doppio, ma chi era dentro alle cose di tennis italiano sapeva quello che potevo dare. All’interno di quella squadra, dal primo all’ultimo mi diedero una gran fiducia. E io sono sempre stato un ragazzo che sentiva il bisogno della fiducia e così riuscivo a dare tanto. Non solo ero ovviamente felice per le affermazioni personali, ma mi ha sempre reso orgoglioso il saper di aver fatto qualcosa per quella squadra, per il mio allenatore, per i dirigenti, per il gruppo. Il segreto fu stare assieme quasi tre settimane per preparare quell’incontro e si era creata una bella sinergia tra noi. Entrai in campo con Nieminen dopo il 14-12 vittorioso al quinto del compianto Federico Luzzi e aspettai tre ore non sapendo nemmeno come scaricare la tensione.”
A tratti prendesti a pallate Mantilla a Roma.
“Beh senza essere presuntuoso il tennis non mi è mai mancato, cioè che non mi ha appartenuto è stata la continuità. Senza lavoro, perseveranza, non si va lontano, perché il talento è un bonus che deve stare al servizio di altre qualità come impegno continuo e professionalità, e non viceversa. Il tennis è questo, ed è così ancora oggi e forse anche di più. Spero di riuscire a traferire questi concetti ai miei ragazzi.”
Alessandro Zijno