Daniele Silvestre: “Un Team per Federico Gaio, sinergia e competenza per raggiungere la top 100.”
Parla il Coach di Federico Gaio con vista sull’elite del tennis mondiale.
Come è nata la tua passione per il tennis e il tuo percorso come giocatore.
“La mia passione è nata a 5 anni: mio padre aveva sempre giocato a pallone ma amava, seppur da autodidatta, giocare a tennis e quindi io per seguirlo mi sono avvicinato a questo sport. Ho sempre e solo poi giocato a tennis che rappresenta ancora oggi la mia vita a 360 gradi. Pur iniziando per divertimento, da Under 16 ero già B3 delle vecchie classifiche, insomma ero bravino, e questo mi ha indotto a prendere la strada del professionismo. Ai tempi l’attività giovanile era più limitata, c’erano giusto due o tre tornei importanti e quindi le opportunità di fare esperienze all’estero e confrontarsi con altre realtà erano inferiori. Oggi è molto diverso, quasi ogni settimana c’è un torneo importante e i ragazzi hanno molte più occasioni di crescere dal punto di vista dell’esperienza internazionale. Solo intorno ai 18 anni ho davvero cominciato a girare di più, facendo qualche ITF Under18 e poi con i 10mila dollari e ancora prima i Satelliti. Comunque anche per i tornei dei “grandi” non c’erano tutte le competizioni che ci sono ora. Adesso capitano settimane in cui ci sono anche 15 tornei contemporaneamente tra Challenger e ITF, e quindi è un filo più facile fare attività internazionale rispetto ai miei tempi. Alternavo i 10mila dollari ai tornei Open, che erano remunerativi e ti permettevano di spesarti. In tanti facevamo così, anche tennisti di grandissimo livello, tanto è vero che gli Open erano frequentatissimi e molto seguiti anche dagli appassionati. Con gli Open ti guadagnavi quei soldi che ti permettevano di inseguire il tuo sogno. Venendo io da una realtà provinciale e con limitate possibilità economiche ho sempre fatto in modo di potermi mantenere grazie agli Open appunto e alle competizioni a squadre. Ho avuto classifica ATP, ho vinto 4 titoli italiani di serie A1 con il Capri, sono stato 2.1, non mi posso lamentare. Con il Capri fu una cavalcata esaltante: partimmo dalla B2 quando vincemmo il titolo italiano proprio di B2, bissandolo in B1, e in A2 prima dei quattro consecutivi in A1. Resteranno nella storia e per me un ricordo indelebile, e mi hanno aperto le porte per diventare quello che sono oggi. Infatti ad un certo punto ero un po’ giocatore e un po’ Maestro, e alla fine nel 2009 io già insegnavo.”
La differenza tra il circuito Junior e quello PRO.
“La premessa fondamentale è che ognuno ha il suo percorso. In passato qualcuno ha provato a far fare subito esperienze di alto livello ai ragazzi di 16-17 anni, oggi c’è una tendenza a modulare e alternare esperienze Junior e Pro. Non è solo un discorso di esperienza di match, bisogna crescere come individui, come persone, e quindi ad esempio vivere i tornei dello Slam, seppur Juniores, diventa un bagaglio di crescita importante per i più giovani. In questo modo probabilmente il passaggio tra Pro e Junior è meno traumatico. Noi in Italia abbiamo avuto esempi di ragazzi che sono stati numero 1 al mondo come Juniores e poi non son riusciti a fare il salto tra i professionisti come speravano loro per primi. Il mio personale parere è che non ci sia una strada definita e sia giusto variare: abbiamo l’esempio di Sinner che ha fatto poca attività Junior e si è buttato subito con profitto in ATP e magari Musetti e Zeppieri, che stanno crescendo bene anche loro che invece hanno preferito alternare Slam Juniores a tornei Challenger.”
Tu hai giocato anche con giocatori di altissimo livello.
“Ho avuto la fortuna che con l’esperienza di Capri ho potuto confrontarmi con gente fortissima: la Serie A era frequentata da tutti i più forti. Il primo anno a Capri eravamo io, Starace, Sanguinetti e giocavamo contro squadre che schieravano Seppi, Fognini, Golubev, Uros Vico. Un anno l’Aniene aveva Kohlschreiber, Cipolla, Santopadre. Quindi era un livello molto alto. La possibilità di vivere queste esperienze mi ha fatto crescere moltissimo.”
Si vedeva già che Seppi era forte e avrebbe fatto strada?
“Seppi io l’ho conosciuto a Baden Baden quando aveva 15 anni, in un bel torneo internazionale tedesco. Lui è due anni più piccolo di me, e già a quell’età possedeva una mentalità positiva, da gran lavoratore. Una mentalità che ha anche Sinner che è delle sue parti. Su Sinner ho sentito una bella battuta qualche tempi fa che diceva “Sinner ha la carrozzeria italiana e il motore tedesco” e si può associare anche a Seppi. Quando ho visto i Volandri e gli Starace erano già tennisti affermati, e quindi erano “inquadrati”, così come Seppi che mi colpì perché lo era già da ragazzino.”
L’esperienza con Camila Giorgi.
“Io stavo già cominciando ad allenare facendo delle stagioni lì a Capri, e poi nel 2013 sono entrato in Federazione, inizialmente come responsabile dei CPA di Lazio e Sardegna, ma subito dopo andai delle settimane a Tirrenia nel Centro Federale, grazie alla fiducia nei miei confronti di Giancarlo Palumbo che era il responsabile a Capri dei Centri Estivi e con cui avevo collaborato. Iniziai così a lavorare con il settore Under 18. In quel periodo c’era a Tirrenia Camila che si allenava con suo padre e quindi al di fuori del mio ruolo federale davo una mano a Camila facendole da sparring. Ero un profilo ideale perché Camila pur essendo fortissima non poteva allenarsi con un maschio PRO, ma nemmeno con una sedicenne che magari non teneva il ritmo. Quindi quando io finivo il mio turno di lavoro con gli Under 18, mattina e pomeriggio, palleggiavo e la allenavo. Poi il papà Sergio chiese alla Federazione se potevo girare con Camila: avevo 32 anni e già facevo una esperienza di altissimo livello che alla fine è durata un anno e mezzo. Fu Eduardo Infantino, che era il responsabile lì a Tirrenia a spingermi verso questa esperienza e lo ringrazio ancora oggi.”
E’ vero che Camila ha doti fisiche pazzesche? E cosa servirebbe per fare un ulteriore balzo in avanti?
“Quando abbiamo iniziato lei era 124 al mondo, ed era evidente che avesse delle doti fuori dalla norma. Ma doveva riportarle in prestazione, e quello è un processo non sempre scontato. Quell’anno lei salì al numero 30 del mondo, e quindi riuscimmo ad esprimere le sue potenzialità quasi al massimo. Ancora più rilevante è un dato che alcuni dimenticano: nel 2014, in quel fatidico anno, Camila affrontò 18 volte delle tenniste piazzate tra le prime 20 del mondo…e vinse per ben 15 volte! Paradossalmente lei aveva più difficoltà contro giocatrici con ranking più basso. Camila sconfisse la Sharapova a Indian Wells, la Wozniacki, la Azarenka, ne potrei elencare decine. Quello che è successo dopo che abbiamo interrotto la collaborazione non posso saperlo, ad un certo punto i rapporti tra il clan Giorgi e la Federazione si rovinarono come tutti ormai sanno e io uscii di scena. Il suo valore assoluto è senza dubbio altissimo, può tuttora ambire ad avere una classifica tra le prime del mondo: tira forte, ha una velocità di piedi formidabile. Tutti parlano dell’aspetto tattico: ma vedi, quando sei una giocatrice così istintiva, la tattica è tirare. E se vuoi un po’ migliorare certi meccanismi puoi farlo, come facemmo in quella stagione insieme, allenandoti attraverso esercitazioni che portino giocate istintive e oculate nello stesso tempo. Esercitazioni sulle direzioni ad esempio in modo da reagire istintivamente con scelte utili. Da una tennista con le caratteristiche di Camila non puoi pretendere grandi strategie di gioco, la puoi solo allenare in modo da automatizzare certi comportamenti tattici. Meno pensa meglio gioca, ed è uno dei motivi per cui Camila gioca molto bene con le tenniste più forti, contro le quali può esprimere il suo miglior tennis. Quando il gioco è molto veloce lei riesce ad utilizzare questo suo istinto e questa sua grande velocità, avendo dei tempi di reazione fuori dal normale. Il primo torneo che facemmo insieme fu una esperienza non proprio fortunata, perché andammo a Madrid: lì ci sono due campi quasi indoor come condizioni, molto veloci, mentre i due secondari sono in una vallata dove c’è un vento incredibile. Lei giocava contro la Kudryavtseva, allenata da Pistolesi, vinse ma c’era vento, condizioni terribili e poi perse con la Bencic. Camila in quel periodo non voleva giocare su terra per la lentezza della superficie, ed era condizionata da percezioni negative date da vento o altre situazioni incontrollabili. All’inizio faticava ad accettare questo tipo di difficoltà, poi al torneo di Roma sconfisse la Cibulkova che era una top ten, andò avanti al Roland Garros e le “paure” legate alla terra rossa svanirono. Le condizioni in cui la Giorgi gioca meglio sono veloce indoor in assoluto, e l’erba.“
Come è Sergio, il papà di Camila?
“Io ho lavorato con lui ma anche con uno staff Federale. Questo lo dico per amore di verità e anche per l’importanza che assume uno staff, un gruppo di persone, per la crescita di un atleta. Però il padre di Camila è una figura fondamentale per lei: oltre al discorso puramente tennistico, Sergio e Camila hanno fatto esperienze di vita fortissime insieme, andando in America, poi in Francia, poi in Italia. Sempre insieme a condividere difficoltà ed incertezze, gioie e dolori. E Sergio Giorgi pian piano è cresciuto anche lui come allenatore, esattamente come tutti noi cresciamo nel corso del tempo, a furia di esperienze, errori e conferme per il nostro lavoro. A Miami Sergio lavorava dentro l’Accademia esattamente come poi ha fatto da Mouratoglou quando il francese aveva ancora la base a Parigi. Sicuramente per lei è un grande motivatore e un punto di riferimento.”
Arriviamo alla tua collaborazione con Federico Gaio.
“Anche il discorso con Gaio è partito da un progetto federale. Nel 2015 dopo aver interrotto la collaborazione con Camila, ero tornato a Latina al mio Nascosa. Poi Giancarlo Palumbo mi ha contattato per sapere se ero disponibile per seguire due ragazzi su cui puntava tantissimo da molto tempo: Gaio e Giannessi, due suoi pupilli. Loro erano andati a Tirrenia a 13/14 anni, e Giancarlo li aveva fatti crescere portandoli a diventare dei professionisti. Poi però per nuovi incarichi dirigenziali non poteva più seguirli e cercava qualcuno che potesse proseguire il lavoro che aveva intrapreso con loro. Non voleva abbandonarli. Così a febbraio 2016 iniziai a lavorare e girare alcune settimane con Federico, che era intorno alla posizione numero 300 del mondo. La prima trasferta fu in Messico, provando a giocare i Challenger. (Ricordo che io vidi Daniele Silvestre e Federico Gaio la prima volta a Barletta, al Challenger che va in scena al circolo Hugo Simmen e ebbi subito la sensazione di un binomio vincente. Erano semplicemente percezioni, ma sentivo che il connubio avrebbe funzionato NDR). Federico nel giro di pochi mesi diventò numero 146 del mondo, vinse i Challenger di San Benedetto del Tronto e Biella (io c’ero, e spesso fisicamente a fianco di Daniele a rubargli i trucchi, il modo di comunicare, il mestiere NDR). C’erano in questi tornei diversi top 100 ATP, gente fortissima abituata a certi livelli: Lorenzi, Bellucci, Khachanov, Lajovic. A quel punto Federico sembrava proiettato verso un tennis di vertice assoluto. Poi è successo che lui è uscito dal punto di vista anagrafico da un progetto federale, perché superava i 24 anni e io sono rimasto un dipendente della Federazione. Così ci siamo persi per un anno, dove purtroppo Gaio non ha dato seguito a prestazioni e risultati del tenore del periodo precedente. Così è precipitato di nuovo intorno alla posizione 300 ATP. A febbraio 2019 mi chiamò per chiedermi se potevo dargli una mano. Nel frattempo ero tornato a Latina e comunque mantenevo i rapporti con la Federazione restando nello staff di Formia dove seguivo e seguo ancora le ragazze come collaborazione. Dissi a Federico che lo avrei seguito se lui fosse venuto qui a Latina e capii che lui aveva motivazioni fortissime perché mi mostrò grandissima disponibilità. Tornò immediatamente dall’Argentina per farsi una settimana di allenamento intenso sulla terra a Latina: era convinto che sarebbe entrato a San Paolo sul rosso nelle quali ATP. Invece poi si è accorto che era entrato ad Acapulco sul veloce, e riuscì anche a superare le qualificazioni. Si è sentito rifiorito, si è subito ricreata quella armonia tra noi, e siamo ripartiti alla grande. Abbiamo raggiunto il best ranking al numero 124 ATP. Il rapporto umano è predominante nel lavoro giocatore-coach: ed è emblematico che allenandoci insieme a Latina, il feeling, le sensazioni positive, era ciò di cui Federico aveva bisogno e poco importa che lo abbiamo fatto su terra rossa per preparare poi un torneo sul cemento. Conta di più il sentirsi pronti e stare bene a questi livelli. La differenza non l’ha fatta l’allenamento perché in una settimana non è che puoi sconvolgere o portare miglioramenti clamorosi, ma l’ha fatta quel rapporto umano che ha creato energia e le condizioni giuste per poi fare prestazioni convincenti. Federico poi ha vinto il Challenger di Manerbio, ha fatto finale a Parma e quest’anno aveva iniziato davvero molto bene con best ranking e Challenger di Bangkok vinto trionfalmente.”
Quanto si pagherà questo lungo stop?
“Questo periodo è stato ed è tuttora molto difficile per una serie di motivi: è complicato programmare la stagione. Parliamo di tennisti professionisti che generalmente fanno 4/5 settimane di preparazione invernale più dei richiami durante la stagione e non si sa come reagiranno con 6 mesi di stop se non oltre. Per questo motivo con Federico abbiamo approfittato del momento per ampliare il team. L’ATP ha messo a disposizione un fondo per alcuni tennisti, in cui prenderanno 4300 dollari. Parliamo di chi è tra la posizione 101 e 500 del mondo. Ma l’ATP ha lasciato fuori da questo aiuto alcuni giocatori che in base a Prize Money annuale o della carriera non rientreranno nel novero di coloro che riceveranno i soldi. Federico ci sarà. I criteri adottati hanno fatto discutere. Naturalmente non è mai facile prendere decisioni del genere: capisco il 501 del mondo che non prende niente che magari resta deluso. C’è anche da dire che chi ha uno staff composto da varie professionalità, come Federico adesso, deve sostenere delle spese che magari il 550 del mondo non ha.”
Il Team, con vista sulla top 100.
“Noi con Federico abbiamo approfittato di questo momento per incrementare le risorse. Io collaboro con Danilo Pizzorno, e stiamo progettando qualcosa di davvero importante per il lavoro con Federico e non solo. Vogliamo inserire nuove figure professionali nel team che possano aiutarci a crescere ancora di più e raggiungere quel traguardo della Top 100 ATP. Abbiamo così trasformato una difficoltà, come questo periodo, in una opportunità. Spesso non c’è tempo da dedicare ad alcuni aspetti, e in questo momento abbiamo provato a curarne i dettagli. Uno dei tasselli che abbiamo aggiunto è quello determinate della collaborazione con Umberto Ferrara che curerà la preparazione atletica di Federico. Parliamo di uno dei migliori preparatori atletici del mondo, che ha lavorato per molti anni nel Team Piatti, anche con Cecchinato fino a poco tempo fa. E’ uno degli artefici del grandissimo successo di Marco Cecchinato a Parigi e nei tornei ATP. Abbiamo anche fatto un gruppo Whatsapp denominato proprio “Il Team” per indicare simbolicamente la sinergia tra di noi.”
Possiamo dire che grazie ad un team il tennista può sentirsi meno solo anche in campo durante la performance?
“L’idea del Team, in cui credo fortemente, è stata sviluppata e si è definita già in Federazione: nel progetto Over 18 ho allenato Pellegrino e Vavassori, come anche Federico ma avevamo aggregati Sonego o Berrettini. Nel tennis moderno son così tanti gli aspetti da considerare che è indispensabile fare un lavoro di gruppo. Se tu rileggi con gli occhi di oggi la storia di Matteo Berrettini, c’è Vincenzo Santopadre che è un punto di riferimento ma poi c’è Umberto Rianna che è il responsabile del progetto Over 18 e ancora oggi gira e dedica diverse settimane a Matteo, così come a Lorenzo Sonego. Così il concetto di Team l’ho sviluppato negli anni in Federazione. C’è comunque bisogno della disponibilità del giocatore e non parlo di quella economica. Il tennista per primo ci deve credere e valorizzare gli interventi degli specialisti. E poi si deve creare un feeling e questa sinergia deve essere sviluppata: io Danilo e Umberto ci sentiamo tutti i giorni, costantemente, perché Federico ha iniziato un lavoro a Bologna con Umberto e noi ci stiamo già confrontando.”
In che modo un professionista può influire positivamente su un giocatore?
“Ci deve essere la fiducia. Può capitare, anzi capita sovente, che un tennista non intenda cambiare un movimento o una situazione adducendo ad alibi i risultati fin lì ottenuti. Cambiare è sempre fonte di stress. La disponibilità al cambiamento è fondamentale per un tennista se intende superare i suoi limiti. E allo stesso tempo ci deve stare la disponibilità dell’allenatore a condividere esperienze e valori con gli altri componenti del team. Il coach moderno e vincente è questo. Per fare un esempio pratico: è troppo importante il parere che mi viene a dare Umberto Ferrara sull’aspetto fisico, per poter io sviluppare un discorso tecnico su un colpo o su una variante tattica. Ti racconto un aneddoto: Lorenzo Beltrame, il più grande mental coach riguardo al tennis, che collabora con la Federazione ma vive in America da anni ha avuto la fortuna di lavorare con campioni assoluti come Jim Courier ad esempio. E Su Courier raccontava che nonostante lui giocasse prevalentemente col diritto, serviva da destra spostato in esterno, come se preferisse colpire la palla col rovescio. Al chè Beltrame gli chiese perché facesse questo, come se in effetti il diritto non fosse il suo colpo preferito, perché certamente le scelte di posizione lo sfavorivano. Courier non rispose ma quando Lorenzo andò a mangiare lo vide che si allenava servendo nella posizione teoricamente più corretta suggerita dal mental coach italiano. Quando però l’americano fece il successivo test match tornò a servire nella posizione consueta. Dopo un po’ di tempo Beltrame, incuriosito, chiese a Courier il perché non avesse cambiato: e l’americano rispose che temeva di far saltare qualche meccanismo, e che era diventato numero 1 del mondo in quel modo, anche se sapeva che teoricamente Beltrame aveva ragione. Lo ammise candidamente. Questo a dimostrazione di come sia difficile inserire nuovi meccanismi in tennisti consolidati, rispetto a dei bambini o perlomeno a dei ragazzi in costruzione. I grandissimi giocatori, come anche Courier, ascoltano sempre con attenzione le opinioni dei loro allenatori, ma poi da lì a operare dei cambiamenti ce ne corre. Poi abbiamo esempi mirabili di campionissimi come Federer che a 34 anni si è messo a lavorare sul rovescio, per cercare di stare più vicino al campo, cosa che oggi gli riesce meglio che da giovane.”
Tu hai anche un circolo a Latina.
“Sì, il Tennis Club Nascosa, dove cerco di portare le mie esperienze che vorrei mettere al servizio anche di ragazzi della zona che hanno voglia di migliorare e divertirsi con il tennis. Quando ero giovanissimo io, la provincia era comunque priva di opportunità, che invece oggi ci sono qui al Nascosa. Anche se la provincia di Latina in passato ha prodotto buoni tennisti, oggi abbiamo la possibilità di creare progetti ancora più organizzati. A differenza di qualche anno fa, dove c’era maggiore improvvisazione, oggi qui al Nascosa io punto sul metodo: e torno al discorso di Team. Certo che un ragazzino di 12 anni non avrà un gruppo di lavoro che lo segue quotidianamente, sarebbe superfluo, ma si cerca di sviluppare quel modus operandi che oggi è buono per Gaio, domani per il ragazzino che si è fatto le ossa. Vedere allenare poi un PRO nel circolo è motivo di crescita culturale ed è formativo per bambini, genitori e adulti. Osservare un professionista come Gaio che magari è lì a ripetere il gesto tecnico con la palla dalla mano fa sì che gli stessi bambini per emulazione si divertano a ripetere i gesti e si convincono che quello è il sistema giusto per migliorare.”
Cosa diresti ad un ragazzo che volesse seguire la strada di gaio?
“Per prima cosa gli dico che per arrivare lì ci sono voluti anni, un percorso, dei sacrifici e quindi devi essere disponibile ad accettare le difficoltà, a superarle e avere pazienza. Ed ognuno ha il suo di percorso, non bisogna bruciare le tappe o essere frettolosi. Devi ricordarti sempre che ci sono degli step, che necessariamente vanno fatti.”
Quanto impiega un tennista di alto livello nel cambiare o migliorare un colpo?
“Innanzitutto prima di pensare soltanto a cambiare un colpo o a far passare questo messaggio al tennista bisogna che il team sia tutto in accordo. Almeno noi ragioniamo così. Lo scorso anno con Danilo Pizzorno ci eravamo ripromessi di lavorare su qualcosa di specifico con Gaio e lo abbiamo fatto con molta pazienza senza fretta sapendo che Federico non poteva immediatamente arrivare all’obiettivo finale. Abbiamo lavorato per step. Poi c’è da dire che è differente lavorare con un tennista che sta in tornei rispetto a chi ha tempo di prepararsi perché ha le competizioni lontane. Si comincia con un lavoro al cesto, o addirittura dalla mano, per poi provare in palleggio e finalmente inserirlo e ritrovarselo in competizione. E c’è bisogno di molto tempo. Quando si operano dei cambiamenti più o meno radicali spesso c’è a percezione nell’atleta di fare uno o due passi indietro, e questo è un momento chiave. Se il lavoro è coerente e il tennista insiste poi si vedono i risultati, ed è molto importante veicolare questo messaggio all’atleta stesso. Pensa al bambino che vince le partite con i pallonetti: quando gli si chiede di cambiare l’atteggiamento tattico e tirare più forte, gli si deve chiedere contemporaneamente di accettare le conseguenti sconfitte. Sconfitte che possono essere anche frequenti o continue. In allenamento si prova a spingere la palla e se il ragazzo ha un approccio positivo e ottimista allora poi i risultati arrivano. Se al contrario ritorna sui suoi passi alla fine non migliorerà. Il sistema precoce di gare ha portato aspettative troppo forti in segmenti di età in cui bisognerebbe dare un peso relativo ai risultati. La mia scaletta è Obiettivi-> Gioco-> Risultati. Il primo step sono gli obiettivi: bisogna per prima cosa darsi degli obiettivi, che possono essere tecnici, oppure tattici oppure comportamentali. Questi obiettivi ti portano a delle trame di gioco. Il gioco poi ti porta al risultato. Se non si rispettano questi step, se si mette il risultato al primo posto rischi di fare degli errori.”
Cosa pensi dei tornei italiani che verranno organizzati in attesa del ritorno all’attività internazionale?
“Innanzitutto ringrazio Marcello Marchesini che si sta spendendo con le sue figlie e la sua azienza MEF Events per organizzare tornei che si distinguono per una attenzione massima ai giocatori e alle loro esigenze. Marcello Marchesini è stato il primo ad intercettare l’esigenza da parte dei tennisti di alta performance di competere nella gara. In questo momento era ciò che più mancava. Federico parteciperà agli Assoluti che si giocheranno a Todi, e ci saranno i migliori tennisti italiani. E’ una grande occasione per ritrovare i ritmi e l’adrenalina della gara.”
Alessandro Zijno