L’inafferrabile tennis coach nazista, il Dottor Morte Aribert Heim

Cap.1 Qualche settimana dopo la caduta di Hitler, il colpo di fortuna
E’ una giornata caldissima di luglio nel 1945 a Strasburgo. Due uomini sono l’uno davanti all’altro, divisi da un tavolo in legno scuro. Uno inforca occhialetti tondi ed è un ufficiale dell’esercito statunitense, si chiama Andy Fox. E’ lì per determinare le responsabilità dei tedeschi reclusi nel campo di prigionia allestito alla fine della guerra. E’ prevista una amnistia e la liberazione anche per quegli ufficiali tedeschi che tuttavia non si sono macchiati di crimini particolari durante la guerra. L’altro uomo è un medico tedesco, alto quasi due metri, e si chiama Aribert Heim. Ha prestato servizio presso le Waffen-SS col grado di capitano. Fox ha una sigaretta in bocca e si diverte a soffiare il fumo in faccia al prigioniero Heim. Del resto i tedeschi erano capaci decisamente di peggio. L’americano sta leggendo i fogli che riguardano lo stato di servizio di Heim, quando l’assistente di Fox apre la finestra e le carte sul tavolo volano in giro per la polverosa stanza che in genere viene usata per gli interrogatori. Uno dei fogli finisce tra le gambe del prigioniero tedesco che approfittando del momento tenta una carta disperata: infilarsi nei pantaloni quel pezzo di carta che indica la sua presenza al campo di sterminio di Mauthausen. E’ una mossa ardita, che contro ogni pronostico riesce, favorita dalla discussione tra Fox e il suo aiutante. Questo è il primo dei mille colpi d’ala per cui Aribert Heim, il DOTTOR MORTE, il Macellaio di Mauthausen, colui che iniettava petrolio ai suoi pazienti, che uccideva a freddo uomini sani, è riuscito a dileguarsi per il resto della sua vita. Fu così infatti che gli alleati liberarono il medico delle SS, Aribert Ferdinand Heim: del resto in quel momento c’erano 7,7 milioni di soldati tedeschi detenuti dagli americani e dai francesi, e diventava davvero difficile processarli tutti. Quando fu interrogato Heim dichiarò che era stato arruolato nelle SS contro la sua volontà e che aveva semplicemente guidato le ambulanze durante l’occupazione nazista della Francia. Dichiarò il vero, peccato che avesse omesso parecchi altri particolari, soprattutto dimenticò una cittadina dell’alta Austria di nome Mauthausen. I militari impegnati nelle indagini sui crimini di guerra fino a quel momento, appena terminate le ostilità con la resa dei tedeschi, erano per lo più carristi con traumi da granata, assegnati a questo compito quasi a scopo riabilitativo o ricreativo. In quei concitati momenti si pensava di aver già identificato i maggiori responsabili del Terzo Reich e comunque si navigava a vista: bisognava leggere, tradurre e certificare milioni di documenti che comprovassero le colpe degli oppressori tedeschi nei vari campi di sterminio o durante le azioni belliche. Tanto è vero che i processati delle prime ore non furono neppure gli artefici dei delitti più odiosi, ma lo stesso tenente colonnello William Denson, il procuratore capo degli USA mirava a stabilire sentenze che fungessero da precedente nei processi successivi. Quello stesso giorno di luglio Aribert Ferdinand Heim venne liberato e la prima cosa che fece dopo aver tirato un sospiro di sollievo fu distruggere quel foglio che riportava la sua presenza a Mauthausen in mille pezzettini. La seconda fu fantasticare su quando avrebbe ripreso la mazza da hockey e la racchetta da tennis in mano.

Il campo di Mauthausen

Cap.2. Feroce caccia ai nazisti. Simon Wiesenthal, e un altro colpo di fortuna
Simon Wiesenthal era nato a Bucac, nell’attuale Ucraina in una famiglia ebraica di origine polacca. Laureatosi in architettura, sognava una vita tranquilla allorchè l’Europa fu dilaniata dalla seconda guerra mondiale e dalla furia di Hitler. Nel 1941 aveva procurato dei documenti falsi alla moglie Cyla salvandola dai campi di sterminio ma per lui le cose andarono diversamente e si trovò in balia dei nazisti. Quando nel 1945 uscì dal campo di sterminio di Mauthausen, il più duro in assoluto, più ancora dei famosi Auschwitz o Dachau, pesava meno di 50 chili. Neanche 3 settimane dopo la liberazione, inviò una lettera al colonnello Richard Seibel, proponendosi come volontario per dare la caccia ai criminali di guerra, e offrendo una lista di 91 aguzzini nazisti, con una descrizione dettagliata del loro aspetto e dei loro crimini. Dentro questa lista c’era anche il nome di Aribert Heim, ma gli americani oberati di impegni la ignorano favorendo la sparizione di Heim.

Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti

Cap.3. La resilienza di Heim, ancora cattura e prigionia.
A Strasburgo Heim però non sa dove andare, teme di essere identificato e non sa se tornare in Austria dalle sue parti o se contattare qualche vecchio commilitone. E’ un uomo che conosce il sangue freddo, avrebbe vinto numerosi tie break se a quel tempo lo avessero già inventato, ma sa bene che per quelli come lui che han fatto parte attiva nelle SS la strada è sempre impervia, e teme che lo sarà per lungo tempo. Così si dirige verso la stazione di Strasburgo e nelle sue mire c’è la Spagna, per poi giungere in Marocco. Del resto molti Paesi africani hanno simpatizzato per i nazisti e laggiù non fanno molte domande. La libertà di Aribert Heim però dura poche ore, perché una pattuglia americana lo sorprende nei pressi della stazione di Strasburgo, lo porta in caserma per interrogarlo e decide di deporlo di nuovo in stato di fermo, nonostante il foglio di via dal campo di prigionia di poche ore prima. In quel preciso momento in Europa le cose funzionavano così, sia con i nazisti, sia con gli alleati: lo stato di diritto era un miraggio e direi che lo è anche adesso nel 2018. Gli americani lo interrogano di nuovo, si divertono a picchiare ed umiliare il prigioniero tedesco, un uomo di due metri per 100 chili che godono nel sottomettere. Lo lasciano un giorno e una notte fuori nudo con l’acquazzone estivo, legato e con un cartello appeso al collo: c’è scritto in inglese, ero un SS, ora sono così. Gli americani tengono prigioniero Heim fino a Natale 1946, poi lo affidano ai tedeschi, che lo trasferiscono di campo in campo. Viene incarcerato per breve tempo nella fortezza di Hoenasperg, poi nel lager 74 nella FlakKaserme di Ludwigsburg: qui i prigionieri dormivano in stanzoni affollati, il cibo era poco e pessimo, tuttavia il morale era alto, perché pian piano si stava attenuando la morsa degli alleati, in particolare degli americani la cui attenzione era più rivolta al temuto espansionismo europeo dei vecchi amici russi. Qui Heim gioca spesso a tennis, con delle padelle, una rete di fortuna e qualche vecchia pallina residuata. In un torneo con gli altri prigionieri batte nettamente un altro tedesco con un braccio solo, e nonostante i comandanti del campo fossero tedeschi la voce arrivò anche al presidio degli americani in città che per tutta risposta giunsero nei dormitori e ruppero barbaramente il polso sinistro ad Heim, che non potè così continuare il torneo. La sua colpa era stata di esultare alla vittoria contro un handicappato (all’epoca si diceva così), e quindi di reiterare l’apologia dei reati nazisti che teorizzavano l’eliminazione dei “più deboli”. Oggi questo episodio sarebbe visto in modo clamorosamente opposto. Heim fu infine trasferito nel campo intorno alla cava di Kochendorf, i cui internati nell’ultimo anno di guerra erano stati impiegati nella produzione del sale. Ora toccava a lui trasportare i sacchi in attesa di uno stato d’accusa che tardava ad arrivare. Non si dimentichi che Heim era già stato rilasciato e considerato amnistiato, sebbene il certificato gli fosse stato sequestrato nelle ore successive al rilascio quando fu catturato di nuovo dagli alleati. Quegli stessi alleati che liberarono poi molti prigionieri di guerra con la cosiddetta “amnistia di Natale” del 1947 che segnò anche la definitiva fine della prigioni di Heim. Le carte del suo rilascio furono firmate e timbrate dal capitano John D. Austin il 14 dicembre 1947. Da lì a 8 giorni potè andarsene dopo circa 3 anni di detenzione, e in quello stesso mese il tribunale di Dachau aveva giudicato 1500 imputati tedeschi mandandone a morte circa 400. Eppure non era ancora finita l’odissea giudiziaria per il medico: doveva presentarsi nella cave di sale quando fosse stato chiamato per una udienza che avrebbe stabilito il grado di coinvolgimento nei crimini nazisti. Era sostanzialmente in libertà vigilata.


4. Chi era Aribert Ferdinand Heim. Gioie e sofferenze da giovane.
Aribert Heim era figlio di un poliziotto e di una casalinga nato nel 1914 in una cittadina austriaca al confine con la Slovenia, aveva 26 anni quando si laureava a Graz in medicina e nel 1940 si arruolava nelle SS. Quando nel 1931 si era trasferito a Vienna per studiare, ed aveva solo 17 anni, il giovane Aribert giocava in una squadra locale di hockey e per guadagnare qualche soldo restava ore in più sulla pista del ghiaccio per allenare i più piccoli. Quando gli restava qualche ora libera dava lezioni private di tennis, di cui era assolutamente autodidatta. Nel quartiere Josefstadt, nella zona ovest della città, vivevano per lo più studenti ai quali venivano affittate stanze dalla borghesia ebraica: il paradosso sta nel fatto che Heim era stimatissimo da queste famiglie borghesi che gli affidavano i figli per allenarli con la racchetta. La fama di Heim come sportivo era cresciuta tanto che l’Eissport Klub Engelmann lo assoldò come professionista nell’hockey, e gli affidò compiti di aiuto-allenatore nella sezione tennistica in un circolo della zona. Il 15 gennaio 1936 il giornale Sport-Tagblatt in un articolo cita il fenomeno Heim, difensore eccezionale nella squadra di hockey, tennista di ottima mano, e anche campione di atletica leggera. Alcune fotografie ritraggono Aribert e suo fratello Josef a Berlino in occasione delle Olimpiadi che Hitler aveva trasformato in una vetrina della resurrezione della Germania e in una parata del nazismo a 3 anni dalla sua ascesa al potere. Aribert si era trasferito intanto dall’Austria alla Germania, a Rostock, una città tedesca con una fiorente industria sugli armamenti: pochi ricordano che in Austria, nonostante ci fosse al governo la forza politica di destra con cancelliere Engelbert Dollfus, nel 1934 ci fu il Putsch di luglio a Vienna, un fallito colpo di stato da parte dei nazisti austriaci che volevano seguire le orme di Hitler. I Golpisti austronazisti furono condannati a morte e quelli non catturati fuggirono in Serbia e in Germania, tra loro c’era anche Josef che si portò appresso suo fratello Aribert e lo fece arruolare nella legione “austriaca” di Hitler. Aribert però non voleva arruolarsi, in una lettera ai familiari scrive “voglio studiare medicina e non sarà Hitler a darmi la laurea”, così chiede un congedo di tre anni per ragioni di studio mentre Josef combatte. Nel 1941 il fratello amato di Aribert viene paracadutato a Creta nella sfortunata invasione nazista: gli alleati erano stati avvertiti da qualche traditore e il lancio fu un bagno di sangue. Josef fu catturato ancora vivo dalle truppe neozelandesi del Commonwealth britannico che governavano l’isola greca e gli furono strappate le unghie, cavato gli occhi e spaccato i denti mentre chiedeva pietà. Questo episodio segnò definitivamente l’animo di Aribert, fino a quel momento piuttosto freddo nei confronti della politica.


Cap.5 Il processo.
Alla fine della guerra la popolazione tedesca era stata ripartita in 5 grandi categorie, in base al grado di complicità con il nazismo: grandi criminali, criminali, criminali minori, seguaci, e persone esonerate. Nel marzo del 1948 a Heilbronn arrivò sulle scrivanie dei giudici il carteggio riferito ad Heim, il quale come tutti gli accusati e anche i tedeschi liberi doveva compilare il Fragebogen, un questionario di 131 domande: il medico raccontò di essere nato in Austria da genitori tedeschi, e che aveva raccolto alcune testimonianze sulla sua affidabilità politica. Allegava al questionario una lettera della signora Weinaug, dove abitava a Rostock che recitava “si dedicava al suo tirocinio di medico e nel tempo libero praticava sport per guadagnare qualcosa e non l’ho mai sentito parlare di politica”. Nel fascicolo di Heim erano incluse anche le lettere di raccomandazione del capitano Jones dell’esercito americano e del pastore Werner Ernst Linz, il quale sosteneva che “il dott. Heim era un oppositore convinto delle teorie dell’eutanasie hitleriane e della teorie razziali nazionalsocialiste.” Spettava a Heim portare le prove della sua innocenza e non era così scontato. Le informazioni a disposizione degli inquirenti non menzionavano Mauthausen per quel colpo di fortuna e audacia delle prime ore, ma riportavano una presenza di Heim a Buchenwald come ispettore medico dal 19 giugno al 14 luglio 1941. Il suo avvocato insisteva nella distonia tra il crimine puramente nominale del suo assistito e l’esercizio invece professionale dei suoi doveri di medico e portava a sostegno dell’innocenza anche la testimonianza del sindaco di Offwiller, una cittadina francese a nord di Strasburgo dove Heim aveva prestato servizio in cui affermava che “la popolazione civile gli era profondamente grata per aver curato i feriti di entrambi gli schieramenti con la stessa disponibilità e cortesia.” Friedrich Schauly, un cittadino francese, lo confermò: “si è prodigato come medico, curando indistintamente tutti e salvando centinaia di vite.”. Il 22 Marzo 1948 la giuria emise il verdetto: ”L’interessato ha dimostrato in modo credibile di essere stato arruolato forzosamente nelle Waffen-SS; la sua occupazione come dottore non può essergli imputata a crimine non avendo preso parte in alcun modo a nessuna attività contraria all’umanità o al diritto internazionale.”


Cap.6 Il passato ritorna, Karl Kaufmann sulle tracce di Heim
Vi prego di scusare questa mia lettera che riguarda un uomo che durante la guerra faceva parte della vostra organizzazione, il cui nome era dott. Heim, di professione medico.” La lettera elencava le terribili barbarie praticate dal medico nei lager. La lettera era firmata Karl Kaufmann, internato antifascista numero 1463, campo di concentramento di Mauthausen ed era indirizzata alla Federazione Austriaca di Tennis, oltre che all’associazione di hockey su ghiaccio di Vienna. Quelli del ghiaccio la ignorarono mentre in federazione tennis comandava un americano che la girò alla Procura di Vienna. La Procura quindi ora lo cercava di nuovo, ma non sapeva affatto dove trovarlo. Nella lettera comunque Kaufmann, che era stato 6 anni a Mauthausen, forniva una descrizione completa di Heim, ipotizzando che fosse fuggito sotto falso nome. “Era molto alto, forse due metri, e molto robusto. Aveva i capelli biondi e una età di circa 40 anni in questo momento. A quei tempi parlava di amicizie nella città termale di Bad Nauheim in Germania.” Nel maggio 1949 Kaufmann venne finalmente convocato dal tribunale di Linz e fornì altri macabri dettagli oltre ai nomi di altri testimoni in grado di raccontare le nefandezze di Heim, i quali confermarono aggiungendo particolari tremendi. Uno di nome Karl Lotter definì Heim: “un massacratore assoluto, ammazzava a sangue freddo. Veniva nelle baracche e prendeva a decine di noi internati che eravamo terrorizzati da lui. Una volta ha squarciato da cima a fondo senza anestesia l’addome di un giovane ebreo praghese. Si divertiva col cronometro in mano a vedere quanto resisteva a soffrire. E rideva. Poi di ognuna delle sue vittime si teneva il cranio. Così, come trofeo. Un’altra volta aveva sorpreso due ebrei olandesi e giocare con un bastone ed una palla. Era vietato per gli internati, così li portò nelle baracche davanti a noi e li legò insieme. Poi ad uno gli aprì il petto con un coltello e tirò fuori a mani nude il suo cuore, glielo strappò letteralmente, mentre l’altro uomo legato gridava come un ossesso ed era terrorizzato. Rivedo quelle immagini ogni sera prima di addormentarmi, è straziante.”. A quel punto le autorità austriache non possono fare a meno di provare a rintracciare Heim, e inviano una lettera al dipartimento di pubblica sicurezza di Bad Nauheim, proprio la città indicata da Kaufmann. Il cerchio si stava stringendo attorno al medico e coach nazista.


Cap.7. Heim sparisce nel nulla.
In effetti Aribert Heim era stato davvero a Bad Nauheim, dipendente di un ospedale della città, e lì aveva anche giocato ad Hockey e a Tennis. Aveva anche formato una squadretta con altri appassionati della racchetta e tutti insieme andavano a giocare a Friedburg. Nel frattempo Heim si sposa il 30 luglio 1949 con una bella ragazza tedesca di nome Friedl Bechtold e si stabilisce a casa dei genitori di lei a Heidelberg, nella valle del Reno. Lavora senza contratto in una clinica a Mannheim, forse sotto falso nome. Il 13 settembre 1949 Aribert Heim si sta cambiando in uno spogliatoio del centro sportivo della città tedesca di Friedburg. Deve partecipare ad un torneo. L’incontro è previsto alle 14, ma lui è già lì un’ora prima. Sta mettendosi le scarpette da ginnastica e sente arrivare una macchina. E’ cosa rara in quel periodo, molti si muovono in bicicletta e la maggior parte a piedi. Sbircia da una fessura e ciò che vede non gli piace per niente. Ci sono quattro uomini che non sembrano degli sportivi ma dei ficcanaso. Esce dalla finestra del bagno sul retro e si dilegua nel nulla. Forse la sorella Hilda, dipendente del tribunale di Graz, lo aveva già messo in guardia, forse l’ennesimo colpo di fortuna con una intuizione. Fatto sta che la polizia non lo trova, gira i tacchi e se ne va. Il 28 Marzo 1950 con Friedl da poco incinta il governo austriaco emette un mandato di cattura per il dott. Heribert Heim per “omicidi, torture e crimini contro la dignità umana, perpetrati a Mauthausen. Il crimine è punibile con la pena capitale. Il documento riportava la data esatta della nascita dell’accusato (28 giugno 1914) ma il nome era errato (Heribert invece di Aribert) così come il luogo di nascita Ingstfeld invece del corretto Bad Radkersburg. Gli americani lo cercarono ancora un po’ dappertutto ma Heim si era dileguato nel nulla e agli americani restituirono il fascicolo “in attesa di informazioni sulla attuale residenza del ricercato.”. La fortuna bussò ancora una volta alla sua porta perché il matrimonio non era ancora stato registrato e quindi non si poteva risalire alla moglie, presso cui alloggiava.

 

Cap.8 La vita tranquilla di uno stimato medico a Baden Baden

Nel 1953 Aribert e Friedl andarono ad abitare in gran segreto a Baden Baden in una aristocratica villa da ristrutturare che i genitori della donna, Jakob e Kathe Bechtold avevano comprato per i due coniugi. Aribert e Friedl andavano d’accordo, lui aveva il suo ambulatorio di ginecologia in centro che aveva intestato ad un prestanome, mentre Friedl faceva la mamma visto che poi nel 1955 nacque anche il secondogenito Rudiger, dopo che la coppia aveva già avuto il primo figlio Christian Aribert (come il padre). Aribert dava lezioni di tennis ai figli e pare che anche la moglie fosse davvero brava con la racchetta in mano, anche se era malata per un problema al sangue. Gli Heim conducevano una vita ricca ma non particolarmente sfarzosa, amavano andare in vacanza in Italia e in Svizzera e raggiungevano quando potevano Strasburgo in automobile per pranzare alla Maison Kommerzell in Place de la Cathedrale. Aribert ordinava sempre pollo arrosto, aveva gusti semplici e non si faceva notare troppo. Baden Baden era il crocevia di un turismo che già all’epoca era abbastanza sviluppato, e al circolo di tennis locale Aribert era tanto stimato come Maestro che era diventato il responsabile dei giovani agonisti tra cui c’erano diversi ragazzi della borghesia tedesca che si stavano mettendo in evidenza. Erano affascinati dalla disciplina ma anche grande capacità comunicativa ed intelligenza emotiva di Heim. Si faceva chiamare Ferdinand che poi era il suo vero secondo nome e nessuno sospettava niente su di lui. Sembrava uno di quei tecnici appassionati che ama insegnare, uno dei tanti. Uno bravo. In quegli anni a Baden Baden si svolgeva il più importante torneo internazionale tedesco di tennis e nel periodo del torneo a luglio arrivavano i più importanti giocatori dell’epoca, tra cui anche i nostri Fausto Gardini e Giuseppe Merlo che entrarono con certezza in contatto con il dottore nazista Heim che tra gli altri coordinava l’organizzazione del torneo stesso. In quegli anni, dal 1953 al 1961 il tennis riempì la sua vita, e i migliori giocatori del mondo venivano a Baden Baden per fare una vacanza e per giocare al Baden Baden Lawn Tennis Club. Era lontano il tempo del tennis professionistico per come lo intendiamo oggi. Tre campioni entrarono significativamente nella vita di Heim, ognuno con un ruolo differente. Il danese Ulrich Torben divenne molto amico di Heim senza conoscere il suo passato e addirittura allenava il figliolo Rudiger, che all’epoca aveva 5 anni; poi il tedesco Wofgang Stuck che divenne suo grande amico e col quale facevano mangiate di stinco di maiale memorabili: Stuck ammirava il modo di insegnare di Heim, e sosteneva (antesignano) che l’aspetto mentale avrebbe assunto sempre maggiore importanza nello sport, ipotizzando una grande carriera per il piccolo Rudiger in cui vedeva grandi doti naturali. Heim era un fervente sostenitore, forse il primo, delle routines e insegnò al figlio a far fare sempre 3 palleggi alla pallina prima di servire e a visualizzare il volto della mamma sorridente tra un punto e l’altro oltre alla respirazione da controllare. Chi entrò davvero a gamba tesa nella sua vita fu il cecoslovacco, poi diventato britannico, Jaroslav Drobny, numero 1 del mondo del tennis amatoriale in quel momento. Drobny condivideva con Heim la passione per due sport, il tennis e l’hockey, ed entrambi erano stati campioni in queste due discipline. Ciò che divideva i due erano le idee politiche, ma questo lo sapeva solo Drobny, che durante la guerra faceva la spia per gli inglesi, e che teneva un dossier sugli sportivi che incontrava e che avevano simpatie naziste. Potete immaginare il suo stupore quando la prima volta, nel 1954 riconobbe Aribert Heim che conosceva bene in quel Herr Ferdinand come si faceva chiamare. Il fatto fu che Drobny si limitò a segnalare l’incontro alle autorità britanniche che avevano altro da fare che cercare un vecchio ipotetico criminale nazista.

Aribert e Rudiger

Cap9. Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, e la cattura di Eichmann
I tedeschi e gli austriaci come Heim avrebbero potuto ragionevolmente presumere che vista la situazione economica che ricominciava a decollare, le loro Nazioni si fossero lasciate alle spalle la guerra. Era un atteggiamento logico, ma sbagliato. I conti con il passato stavano appena cominciando e la caccia ai nazisti e i processi ai fuggiaschi come Aribert Heim erano sul punto di subire una accelerazione. Molti criminali nazisti si erano rifatti una vita sotto falso nome in Africa o in Sud America, ma pur essendo molto difficile con i mezzi di allora rintracciarli, Wiesenthal ne aveva fatto la sua ragione di vita e non si arrendeva. Raccolse tutti i documenti per sostenere le accuse nel processo e nel dicembre del 1956 finalmente riuscì a far emettere un mandato di cattura nei confronti di Adolf Eichmann. L’anno seguente Wiesenthal ricevette una lettera che sosteneva la presenza di Eichmann a Buenos Aires: la figlia di un superstite dell’olocausto, una certa Sylvia Hermann frequentava un ragazzo Nick che parlava troppo e aveva rivelato di essere il figlio del famoso medico nazista di Auschwitz. Qualche tempo dopo Lothar Hermann che era stato reso cieco dai maltrattamenti subiti nel campo di concentramento si fece accompagnare dalla figlia Sylvia a casa del fidanzato di lei, Nick Klement per rendersi conto in qualche modo se quel signore del salotto buono di Buenos Aires fosse davvero il criminale ricercato. I due investigatori dilettanti riuscirono nel loro intento e riferirono a Wiesenthal che coordinava le operazioni. L’11 maggio 1960 Riccardo Klement alias Adolf Eichmann, sceso dall’autobus rientrava a casa, aveva finito il turno alla Mercedes-Benz dove lavorava.Un momentito senhor”, venne fermato da due tipi che lo infilarono in un veicolo e lo portarono in una casa sicura, interrogandolo, drogandolo e torturandolo per poi traferirlo a Tel Aviv. Fu un vero rapimento tanto che le autorità argentine se ne lamentarono ma Israele replicò che non era stato il Mossad. Weisenthal gridò al mondo:” Adolf Eichmann è stato catturato e verrà processato in Israele. L’annuncio tuttavia fu accolto da una ovazione sia negli Stati Uniti sia in Europa. Nessun processo, dopo Norimberga, suscitò tanto scalpore quanto quello contro Eichmann, che iniziò l’11 aprile 1961. Fu in questo periodo che Aribert Heim tornò a temere fortemente che il suo passato si rifacesse vivo. Contattò quindi uno degli avvocati più in voga tra gli ex nazisti, Fritz Steinaker. Ciò che aveva di nuovo messo Heim era stato l’arresto tanto sbandierato di Eichmann. Wiesenthal stava mostrando i muscoli, di fatto arrivando persino a violare il diritto internazionale, o a calpestare le leggi di stati sovrani come l’Argentina e aveva dichiarato che avrebbe scovato anche l’ultimo nazista presente sulla terra. Se era riuscito ad arrivare così lontano ci avrebbe messo poco a rintracciare un medico come lui senza alcuna protezione particolare. In più era stato messo in allarme da due uomini che alla stazione di Heidelberg lo avevano fermato e gli avevano fatto alcune domande su Mauthausen. Non gli avevano contestato nulla ma era chiaro che sapessero chi era. Il 31 Maggio del ‘61 intanto in Israele si era concluso l’appello di Eichmann (in meno di due mesi, senza contraddittorio, un processo già scritto bisogna pur dirlo) contro la condanna a morte, che venne eseguita il giorno stesso. Condussero il boia di Auschwitz su una piattaforma di legno con una botola dove un altro boia gli legò un cappio intorno al collo. Gli legarono anche le gambe per non farlo scalciare. Le facce attorno erano gonfie di soddisfazione. Le rarissime foto dell’epoca non lasciano dubbi a riguardo e riflettono la barbarie dell’epoca. Eichmann rifiutò il cappuccio. “Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.”: gridò Eichmann prima di morire. Questo episodio scosse molto Heim e scatenò in lui una profonda preoccupazione, inducendolo a prendere una decisione irrevocabile.

Adolf Eichmann e la sentenza di morte

Cap. 10. Heim braccato senza respiro. Berlino, Tangeri e Il Cairo
Il 10 settembre 1962 Heim e sua moglie Friedl erano andati al cinema Metropol di Baden Baden a vedere la commedia di Billy Wilder “a qualcuno piace caldo” e tornando a casa Aribert prese il coraggio a due mani e chiese a sua moglie di ascoltarlo: aveva due cose da dirle molto importanti. La prima è che aveva una figlia illegittima, avuta in circostanze particolari durante la guerra. La seconda era che aveva deciso di fuggire e che non le avrebbe rivelato nessun dettaglio della sua fuga né i motivi, sebbene Friedl li potesse immaginare. Alle 3,50 del giorno successivo cinque o sei uomini in abiti civili, violenti ed aggressivi, entrarono nella villa ora abitata solo da Friedl e dai suoi 2 figli. Cercarono dappertutto, mollando anche un paio di ceffoni alla donna, accusandola di non collaborare. Aribert Heim se l’era svignata. Un’altra volta. La legge tedesca all’epoca non consentiva di incriminare i parenti stretti che aiutano i propri familiari a sottrarsi alla giustizia (la legge nel frattempo è cambiata dopo l’11 settembre 2001) e questo dettaglio aiutò ancora una volta Heim, perché la sorella di fatto non fu nemmeno interrogata, mentre era stata l’ultima a vederlo e gli aveva dato anche molti contanti per favorirne la fuga. Nell’aprile del 1963, diversi mesi dopo la sua fuga da Baden Baden, Heim andò a Berlino Ovest a controllare le sue proprietà i cui contratti erano depositati presso la società immobiliare Wilhelm Droste. Investì ufficialmente la sorella Herta della gestione del patrimonio, e a lei dovevano essere dati tutti i proventi degli affitti e delle vendite degli immobili. Alloggiò all’Hotel Fruhling non lontano dalla stazione ferroviaria e questa fu l’ultima volta che Heim fu visto con certezza in Germania. Nel 1945 la Gestapo aveva fornito ai suoi ufficiali documenti falsi, e lo stesso avevano fatto i vertici delle SS anche dopo la caduta di Hitler, ma Heim per sua fortuna se li era procurati da solo, nessuno sa come in realtà. Per cui quando gli ultimi documenti falsi furono scoperti nei primi anni ’60 e quindi divennero inutilizzabili, molti vecchi gerarchi caddero definitivamente delle mani dei cacciatori di nazisti, e questo ingolfò la macchina delle ricerche. Ciò aiuto ancora una volta Heim nelle sua fuga disperata. Erano tanti gli stranieri nella città di Tangeri, in Marocco, residui del tempo in cui quel porto del Mediterraneo era amministrato dalle potenze internazionali. Aribert Heim che era arrivato lì passando per la Spagna, non dava nell’occhio in questa grande città turistica già allora. Un luogo nel quale si poteva sorseggiare un whisky alla menta al bar dell’hotel El Minzah, il più glamour per quei tempi. Heim tuttavia era abbastanza scaltro da sapere che Wiesenthal e i suoi uomini andavano a nozze nella loro caccia in questi posti dove ogni tanto beccavano qualche criminale e lo brutalizzavano, uccidendolo se di piccolo cabotaggio, mentre lo arrestavano con le fanfare se di grande calibro. Aribert viveva in una stamberga in condizioni molto spartane, e fu lì che incontrò nel 1963 la sorella Herta Heim e la suocera Kathe Bechtold che per raggiungere Tangeri fecero una rotta molto contorta passando per Madrid per paura di essere seguite. Le due donne aiutarono il fuggiasco a prendere tutte le misure finanziarie indispensabili per provvedere a quella che non si prospettava più come una fuga improvvisa ma come una condizione duratura. Heim cominciava a capire qualche parola di arabo e nella sua permanenza in Marocco cercava di comprendere usi e costumi locali, era gentile e mai invadente. Se qualcuno del posto gli augurava buona fortuna lui aveva imparato a rispondere “Inshallah”, se Dio vuole. E in cuor suo si sentiva meritevole dell’aiuto di Dio. Tangeri tuttavia non era un luogo adatto per una residenza semipermanente, la città era sì accogliente ma piena di ebrei. Intanto la polizia tedesca non aveva la più pallida idea di dove fosse finito Heim: circolavano tante voci e soprattutto si sapeva che l’organizzazione Odessa stava aiutando tanti nazisti a rimanere nell’ombra. Heim partì dal Marocco e atterrò al nuovissimo aeroporto del Cairo sul finire del 1963. I tedeschi del Cairo vivevano nei quartieri esclusivi di Helwan e Maadi. Potevano gustare la cucina tedesca al ristorante Lowenbrau e vedere film americani, francesi e italiani al cinema Rivoli. Aribert Heim si teneva in contatto con la famiglia attraverso delle lettere che spediva ad una signora che aveva curato amabilmente e di cui si poteva fidare che si chiamava Kathy Weil. Ogni sei mesi circa dava indicazioni alla sorella Herta su come mandargli i denari necessari al suo mantenimento. Ogni volta per portare i soldi al fratello, Herta era costretta a viaggi estenuanti. Cambiava sempre rotta, passando per Parigi, o arrivando in Libano per poi proseguire verso il Cairo. Bastava un controllo più minuzioso per far saltare tutto. La mattina del 7 giugno 1967, in piena guerra dei Sei giorni, Simon Wiesenthal convocò una conferenza stampa a Vienna: “A differenza dei criminali nazisti che vivono liberi in altri paesi, i criminali nazisti che si trovano i Medio Oriente sono profondamente coinvolti nella politica e il loro ruolo è parte integrante del piano della lotta contro Israele.” Tra i 43 nomi indicati compariva anche quello dell’ ”Hauptsturmfuhrer Dott. Heribert Heim, medico di Mauthausen e autori di innumerevoli esperimenti sui prigionieri del lager con esiti mortali. Ricercato in Austria, lavora come medico della polizia in Egitto dal 1954. La dichiarazione di Wiesenthal come non sarà sfuggito al lettore attento presenta parecchie imprecisioni a partire dal nome di battesimo fino al fatto che nel 1954 Heim era senz’altro a Baden Baden da cui partì ben 8 anni dopo. Non si sbagliava però Weisenthal sul fatto che Heim fosse in Egitto.

Heim è al Cairo

Cap.11 La permanenza in Egitto, la diffidenza e l’allenamento dei bambini
In Egitto intanto il medico nazista, avendo a disposizione molto tempo aveva cominciato ad interessarsi al tessuto sociale ed economico locale. Era convinto, giustamente, che le costa egiziana avrebbe potuto rivaleggiare in futuro con le spiagge spagnole ed italiane. Poi trovò due campetti da tennis semiabbandonati in cemento, li sistemò alla buona, e mise su una scuola di tennis per ragazzi che non avevano i mezzi per frequentare i lussuosi e costosi circoli della parte ricca della città. In Germania nel frattempo la sorella Herta continuava ad amministrare le proprietà di famiglia, da cui proveniva il denaro con il quale Heim acquistò sia i campetti di tennis sia un terreno sul mare ad Alessandria. La moglie Friedl era stata interrogata ancora, insieme ad Herta stavolta, ma le due donne si erano trincerate dietro un “non sappiamo dove sia”. Qualche mese dopo, nel febbraio del 1967, Friedl chiese il divorzio e fornì come ultimo indirizzo di Aribert la casa di Baden Baden, “poiché la sua residenza attuale è sconosciuta.”. I figli Rudiger e Christian intanto crescevano, continuavano a fare sport seguendo le istruzioni del padre. La relativa calma del dopoguerra in Germania si concluse con le manifestazioni studentesche del 1968; gli estremisti di sinistra del movimento costituirono un potente gruppo terroristico, la Rote Armee Fraktion, meglio conosciuta come RAF e basarono la loro propaganda sull’appoggio a Wiesenthal per la cattura dei criminali nazisti. C’è da dire che oltre a motivi ideologici c’erano da parte della RAF motivi economici, visto che Israele finanziava il movimento. Questo diede un impulso alla ricerca di Heim, che divenne spasmodica, tanto che un nuovo responsabile della sua cattura fu nominato: il suo nome era Alfred Aedtner, direttore di una unità investigativa che aveva il solo compito di rintracciare e arrestare Heim. Forse il medico era ancora nascosto in Germania sotto falso nome, o in qualche isolato villaggio delle montagne austriache ma avrebbe potuto anche essere in Argentina o in Bolivia, come Klaus Barbie. Aedtner decise di ricominciare da capo ripartendo dai testimoni, ma non cavò un ragno dal buco, perché alcuni erano morti, altri non attendibili. Trovò interessante solo un avvocato, un certo Gustav Rieger che raccontò delle malefatte di Heim nel bordello usato dai soldati tedeschi per “calmare i bollori”, che ovviamente pullulava di ebree di buona presenza. Rieger disse che Heim ogni tanto si serviva delle “prestazioni” delle internate, e si divertiva “sadicamente a picchiarle con la racchetta da tennis mentre le possedeva.” Era disgustoso, ma era anche una accusa caduta in prescrizione e agli investigatori servivano prove degli omicidi e soprattutto notizie fresche. Rimaneva solo la speranza in Aedtner che a furia di sorvegliare la sorella e il cognato, qualcosa saltasse fuori. Intanto Heim nei due campetti da tennis faceva proseliti e molti dei migliori talenti africani si stavano formando lì. Quando i responsabili della federazione egiziana vollero nazionalizzare la scuola fondata da Aribert Heim che funzionava tanto bene, lui non si oppose. Del resto era un semplice Maestro di tennis appassionato del suo lavoro, e non voleva destare sospetti. Si mise a disposizione dei nuovi gestori e pian piano uscì di scena, sebbene Abbas Badr, il più forte ragazzino egiziano dell’epoca, fu seguito ancora dal medico nazista su altri campi mentre vinceva per tre anni di seguito il campionato nazionale giovanile. Nel 1975 quando stava per compiere 20 anni Rudiger, il figlio più giovane prese la decisione di rivedere il padre. Dopo il diploma aveva trascorso alcuni mesi a Losanna, aveva imparato il francese e poi era andato a Firenze e Pisa per studiare medicina e italiano. La madre decise di finanziare il suo folle viaggio per incontrare il padre. Aribert Heim era ansioso di rivedere il figlio ma si comportava con cautela anche maggiore del solito nei suoi spostamenti. Gli israeliani non solo avevano catturato Eichmann ma il Mossad aveva anche ucciso in Uruguay il capitano delle SS Herbert Cukurs, il boia di Riga. Bene faceva Heim a diffidare di tutto e tutti, i servizi segreti israeliani si erano infiltrati anche nella comunità tedesca del Cairo, composta in gran parte da persone che nulla avevano a che fare con i crimini nazisti, anche se qualche mela marcia c’era. Aribert che era un avido lettore di giornali diffidava di chiunque si mostrasse troppo interessato a lui. Un giorno incontrò un altro tedesco, un certo Lotz, che lo invitò ad alcune sue feste che dava nella sua villa per ospiti di ogni nazione. Heim si fece dare il biglietto da visita e indagò per suo conto appostandosi nei pressi della villa; vide che c’erano feste in cui su suonava persino l’inno nazista. Quello che scoprì non gli piacque per nulla e non si fece più vedere. Lotz non era altro che un infiltrato che lavorava per il Mossad. Lo spavento più grosso lo prese il giorno che si trovò faccia a faccia con una signora che possedeva una farmacia a Baden Baden. La farmacista non meno sorpresa di lui lo apostrofò dicendo: “Herr Doctor Heim, che ci fa qui?”. Il dott. Heim o l’uomo che gli assomigliava come una goccia d’acqua continuò a camminare, fingendo di non conoscerla. Probabilmente fu proprio il suo tenersi alla larga dai connazionali a proteggerlo.


Cap12. Heim riabbraccia il figlio Rudiger
Rudiger Heim arrivò in Egitto per incontrare il padre che non vedeva più da quando aveva 6 anni. Da Firenze si era poi trasferito a Roma, per studiare l’italiano presso la casa di alcuni connazionali esattamente a Torvajanica, nell’attuale comune di Pomezia, la città fondata da Mussolini, C’era una palazzina appena costruita che ancora non risultava nemmeno nel catasto esattamente nell’attuale via Olanda 56, la strada era ancora sterrata e il posto era tranquillo. Aspettava ordini dal padre, che arrivarono tramite alcuni amici della città di Singen che erano venuti a “trovare” il figlio defunto nel cimitero tedesco della città pontina. Da Singen a Pomezia sembra si fossero trasferiti alcuni piccoli funzionari del Terzo Reich per breve tempo prima di sparire verso mete più sicure. Da Fiumicino poi prese un aereo con scalo ad Atene. Era teso ed eccitato, temeva di essere seguito. Le indicazioni di suo padre erano di attenderlo ogni giorno tra le 11 e le 15 al caffè all’aperto dell’Hotel Nile Hilton, dove nel 1970 Nasser aveva incontrato Yasser Arafat e si diceva che qualcuno provò a versare nel caffè del leader palestinese una letale dose di veleno. Nell’attesa Rudiger andava avanti e indietro in mezzo a famiglie in vacanza e uomini d’affari, con i suoi capelli lunghi e disordinati, i blue-jeans e la T-shirt. Dava molto nell’occhio. Quando i due si incontrarono non si chiamarono per nome, né si abbracciarono per timore di essere riconosciuti. Rudiger era in Egitto da pochi giorni quando nel bel mezzo della notte fu svegliato da forti colpi alla porta della sua stanza. Il padre gli aveva trovato una sistemazione al Mena House, un lussuoso albergo di Giza perché voleva che il figlio prima di ripartire visitasse la Grande Piramide e la Sfinge. Si alzò col cuore in gola. “Apri!”, gridò una voce in inglese. Rudiger prese tempo, uscì sul terrazzino e scavalcò nei terrazzini successivi. Si nascose per qualche ora tremando, poi riuscì a fuggire dall’albergo. La mattina dopo il padre lo trasferì in un albergo meno appariscente e forse più sicuro, l’Hotel Scarabeo al civico 26 di July Street. Forse quell’uomo aveva solo sbagliato stanza ma le precauzioni non erano mai troppe. Aribert Heim abitava al Karnak Hotel, una zona cuscinetto tra le caotiche vie islamiche e le più ordinate strade del quartiere europeo. L’albergo di cui possedeva una quota era uno degli investimenti immobiliari di Heim. Gli piacque molto l’idea che il figlio volesse dedicarsi al tennis professionistico, e attribuiva la bravura di Rudiger agli allenamenti svolti insieme dai 3 ai 6 anni, quando secondo lui si formavano le abilità psicomotorie dei bambini. Non aveva così torto. Rudiger giocava già con profitto nei tornei Satellite (i moderni Futures) e nelle qualificazioni dei tornei maggiori. Heim adesso aveva 61 ani e il figlio 20, per cui non potendo fargli da sparring lo affidò alle cure del miglior giocatore de Il Cairo di quel periodo. Rudiger vinse agevolmente tutte le partite che giocò, col padre che gridava di continuo: “vai a rete, sei alto, servi e vai a rete!.”. Non parlarono mai della guerra né dei crimini, nonostante Rudiger avesse una voglia matta di conoscere il passato del padre. Però dubitava delle cattive voci su di lui: non poteva essere un criminale nazista un uomo come suo papà che parlava amabilmente in arabo con le persone del posto, che giocava con i bambini e che era benvoluto da tutti. La sua idea di nazisti era quella proposta dai film hollywoodiani, figure di razzisti che si credevano al di sopra di ogni regola e che consideravano gli altri esseri inferiori. Il padre non era così, su questo non nutriva il minimo dubbio.

Una delle lettere inviate alla famiglia

Cap.13 Gli investigatori spulciano la famiglia Heim
Il segugio Alfred Aedtner era arrivato a Berlino, seguendo la pista delle proprietà della famiglia Heim, in un condominio al numero 28 di Tile-Wardenberg-Strasse. Gli investigatori già sapevano di queste proprietà ma l’avevano prese in considerazione solo come possibili nascondigli. E lo stesso valeva per i beni immobili, numerosi, della famiglia della moglie di Heim. In realtà Aedtner voleva scoprire dove andassero a finire i soldi degli affitti. Lo studio Wilhelm Droste, che gestiva le proprietà inviava regolarmente le somme alla Volksbank Dreieich. Aedtner di procurò un mandato di perquisizione ed ebbe accesso alle carte dell’archivio della Wilhelm Droste. La proprietà rendeva circa 24mila marchi l’anno, una cifra che aggiunta ai probabili regali dei suoceri, garantiva senza dubbio una vita relativamente agiata al fuggitivo. Non dover lavorare per mantenersi significava che per Heim era molto più facile rendersi invisibile. Josef Mengele, che proveniva da una famiglia ricca, sfuggiva alla cattura proprio per questo motivo. Indagando e lavorando sui conti della famiglia Heim, Aedtner scoprì con sorpresa che lo stipendio del medico includeva un contributo per una figlia illegittima, nata il 28 luglio 1942, indicata come Waltraud Boser (il nome in realtà era Waltraut). All’inizio gli assegni erano inviati a Geltrud Boser, che si supponeva essere la madre della bambina, con residenza nella città turistica di Kitzbuhel. “Esiste una ragionevole possibilità che il ricercato sia rimasto in contatto con la figlia illegittima o con la madre”, annotava l’investigatore. Finalmente il 26 Aprile del 1977 Alfred Aedtner bussò alla porta di Geltrud, che nel frattempo aveva 63 anni, la quale però non fu d’aiuto per gli investigatori e dichiarò di non aver più avuto notizie di Heim. Ignaro che la polizia stesse intensificando le ricerche di Aribert Heim, Rudiger se ne tornò in Italia, ancora a Pomezia per qualche mese dove dava una mano al custode del Cimitero Monumentale Militare Germanico. Vicino al cimitero c’erano dei grandi spazi verdi inutilizzati e Rudiger si era fatto costruire un campo da tennis in una superficie molto simile all’argilla. Lì si allenava con chi trovava disponibile. Si operò al setto nasale per respirare meglio come gli aveva consigliato suo padre per il proseguo della carriera. Poi si spostò a Pisa dove aveva preparato i documenti per iscriversi a medicina. Per mettere pressione a Herta, la sorella di Aribert Heim, gli investigatori gli notificarono una multa altissima che non sarebbe stato in grado di pagare per aver sempre evaso le tasse, a meno che non dimostrasse che quei soldi erano finiti nella mani di suo fratello. Era un ricatto bello e buono: “tu ci dai Heim e noi ti leviamo la multa.”. Aedtner aveva di nuovo perquisito la casa di Herta e aveva trovato delle lettere scritte in una lingua incomprensibile, però erano state spedite da Herta all’avvocato Steinacker, quindi gli indirizzi non portavano a Aribert, e in più erano scritte in codice, erano geroglifici veri e propri. Ci sarebbe voluto un secolo a decifrarle. In realtà, come si scoprirà poi ogni lettera era spostata di un posto, la A era una B, la C era una D e così via. Comunque per ovviare al problema delle tasse, a Herta non rimaneva che consultare un legale e così inviò Steinacker proprio al Cairo. L’avvocato prenotò un posto sul volo della Lufthansa per il 30 marzo 1977, diretto al Cairo. Spesa 1760 Marchi, a carico di Herta Heim. Heim e il suo avvocato si incontrarono in un caffè sul Nilo e Steinacker chiese al suo assistito di firmare una dichiarazione in cui precisava di essere lui, e non la sorella, il percettore degli affitti berlinesi. Andava però aggiunta una registrazione audio in cui dichiarasse di essere in vita e di essere il destinatario delle risorse. Avvocato e cliente si salutarono e andarono ognuno per la sua strada. Nella primavera del 1977 l’investigatore Aedtner affittò per dieci giorni un appartamento vuoto a Francoforte a 6 marchi al giorno che addebitò alla polizia di stato. Dall’edificio di Savignystrasse poteva non soltanto controllare chi entrava ed usciva dallo studio professionale dell’avvocato Steinacker ma persino sbirciare all’interno delle stanze. Forse era troppo pensare che Aribert Heim entrasse di persona nell’edificio ma non si poteva mai dire. Il 24 Maggio 1977 vide arrivare Herta Heim. Aedtner era ancora lontano dallo scoprire il nascondiglio di Heim ma per la prima volta ebbe l’impressione di essersi avvicinato non poco. L’ex moglie, come scoprì Aedtner, e i suoi figli facevano una vita normale, come nulla fosse. Friedl viveva sempre nella villa di Baden Baden,; Christian Aribert, il figlio più grande studiava a Heidelberg, mentre Rudiger girava l’Italia e l’Europa per studiare e giocare i tornei di tennis con i quali a malapena si pagava gli studi. Chi continuava personalmente ad interessarsi ad Aribert Heim era Simon Wiesenthal, per il quale la mancata cattura del “Dottor Morte” risultava difficile da digerire, essendo stato lui per primo internato a Mauthausen. Wiesenthal aveva 70 anni ma non aveva perso la sua combattività: aveva partecipato attivamente da poco alla cattura di altri criminali nazisti ancora latitanti i quegli anni, tra cui la famosa Hermine Braunsteiner, la brutale guardia dei campi di sterminio soprannominata “la cavalla di Majdanek”, che si era sposata e trasferita negli USA. Di lei che si diceva si divertisse a cavare gli occhi dei prigionieri con i tacchi a spillo. In quegli anni l’immagine di Wiesenthal era ai massimi splendori, splendidamente raccontata e promossa da romanzi come Dossier Odessa di Forsyth o da film come Il Maratoneta del 1976. La fama del cacciatore di nazisti aumentava e di conseguenza cresceva la sua influenza sui governi e la caccia ad Heim divenne la sua priorità. Come spesso capita nella storia le persone dotate di troppo potere finiscono per cambiare le regole e le carte in tavola e Wiesenthal convinse tutti che, per determinate questioni come la caccia ai nazisti, la vecchia norma che proteggeva gli avvocati in relazione ai loro assistiti non poteva valere.Nessuno vuole privare il Dott. Heim di un buon legale, ma l’avv. Stenacker non sta difendendo il suo assistito in tribunale ma con il suo patrocinio gli consente di vivere in latitanza senza preoccupazioni, aiutandolo a ricevere 6500 Marchi al mese e a rimanere nell’illegalità. Sia processato l’avvocato Steinecker come complice e associato di una banda criminale assieme alla sorella, alla moglie e ai figli.”. Questo scrisse Weisenthal ai Ministeri di Giustizia di mezzo mondo, compresa l’Italia dove viveva Rudiger.


Cap.14 Rudiger Heim in Italia, le vittorie nel tornei di tennis e la depressione
Il 1977, quando Vilas vinse due prove dello Slam (Parigi e New York), fu l’anno migliore per il tennis di Rudiger. Cominciò la stagione agonistica a fine Febbraio nei tornei satellite indoor in Svizzera, passando diversi turni e piazzandosi in buone posizioni di ranking che gli permettevano di entrare a volte nelle qualificazioni dei tornei maggiori. Fallì le qualificazioni ad Helsinki e a Marzo era iscritto al torneo de Il Cairo, con 30mila dollari di montepremi. Partì in aereo col bavarese Werner Zirngbl, che è stato al massimo numero 97 delle classifiche mondiali. Rudiger avrebbe dovuto provare a vincere il torneo di qualificazione per entrare nel tabellone principale ma quando nella prima partita vide su padre sulle tribune ebbe un vero e proprio blocco e non riuscì a mettere dentro una palla. Aribert non disse nulla, sebbene affranto, sapeva bene che sarebbe stato inutile mostrare le sue emozioni. I due non si salutarono nemmeno se non con uno sguardo e un gesto d’intesa, la vera sofferenza non era la sconfitta per Rudiger ma non poter riabbracciare suo padre per paura di essere visti. Il torneo del Cairo fu vinto da Francoise Jouffret, che poi divenne numero 20 al mondo. Tornato in Italia si fece strada nei tornei di Ancona e Padova, mentre Bjorn Borg spopolava a Montecarlo e Wimbledon. Al torneo di Firenze Rudiger fece un incontro importante per la sua vita futura. Divenne infatti amico di un pittore siciliano con idee vicine all’anarchia e con la stessa passione per il tennis. Il pittore si chiamava Tano Pisano e girava il mondo in realtà senza una vera meta ma spinto dalla voglia di conoscere e viaggiare. Rudiger ormai parlava bene l’italiano, oltre a conoscere perfettamente tedesco ed inglese. Passarono la settimana del torneo di Firenze insieme, e poi Tano lo seguì come confidente/coach/accompagnatore anche a Palermo. Poi però Tano ebbe una crisi esistenziale e da un giorno all’altro partì per la Danimarca, dove voleva aprire un ristorante. Aveva trovato un posto idilliaco, sullo stretto di Oresund e lì aveva fondato il Den Gule Coattage, cioè Il Cottage Giallo, che avrebbe diffuso la cucina mediterranea nel ristretto mondo culinario scandinavo. La prima volta che servì i carciofi, i clienti lo guardarono perplesso, perché non li avevano mai visti prima. A Rudiger mancava molto il suo amico Tano, ma fu il tennis ancora una volta a riunirli, quando il tennista si recò in Danimarca per partecipare all’ennesimo torneo. Rudiger conduceva la vita vagabonda dei tennisti non celebri, né ricca né comoda. Gli atleti, come del resto anche ora, se ne andavano qua e là con le loro racchette, soggiornavano in modesti alberghetti, e pranzavano al circolo del tennis. Ma rispetto ad oggi non c’era la tecnologia ad avvicinare le distanze e favorire le relazioni. Rudiger aveva vinto un premio in denaro solo una volta, nel 1978 a Messina e considerava la Danimarca il posto peggiore perché non permetteva agli stranieri di allenarsi. Forse questa proibizione non fu del tutto estranea alla decisione di finirla con i tornei. Così confidò a Tano Pisano di voler ricostruire la sua vita senza dover più né studiare né competere nel tennis e il siciliano gli offrì la possibilità di restare in Danimarca lavorando con lui nel ristorante. All’inizio del 1979 la preoccupazione di Rudiger era l’operazione alla prostata del padre, ignorava di essere pedinato dalla polizia, così come lo ignorava la sua famiglia. Non sapeva, poi, che gli investigatori annotavano la destinazione dei pacchi che la madre gli spediva all’indirizzo di Tano Pisano. Non potè fare a meno però di notare l’articolo dello “Spiegel” sul padre. Era il 5 febbraio 1979 e sulla copertina campeggiava una fotografia in bianco e nero di rotaie spolverate di neve che si inoltravano oltre il cancello di Auschwitz. Aribert Heim veniva additato come la faccia dell’impunità nazista. L’articolo era accompagnato da una foto di Aribert Heim con i capelli impomatati, una espressione seria e i suoi terribili crimini venivano descritti minuziosamente. Era un medico che uccideva per noia, recitava lo “Spiegel”, e si impadroniva dei teschi per usi personali. Nell’articolo, che spaventava enormemente Rudiger gettandolo nello sconforto, si citava anche l’avvocato Steinacker e ci si chiedeva se la sua condotta nel proteggere Heim fosse lecita. L’opinione pubblica fu sconvolta e indignata, e a gran voce si chiedeva la cattura di Aribert Heim e la confisca dei beni della famiglia. Rudiger era depresso, scrisse una lettera al padre in cui parlava in codice e lo avvertiva delle difficoltà sopraggiunte. Tornò anche dalla Danimarca per stare vicino alla famiglia.

Rudiger gioca ad Aarhus in Danimarca il suo ultimo torneo

Cap.15 Aribert Heim e il senso di colpa che non c’è
Il 13 Giugno 1979 un tribunale tedesco sequestra una parte dei beni di famiglia degli Heim, stabilendo un principio pericoloso che in realtà è in uso ancora oggi a disposizione di chi gestisce il potere in uno Stato che dovrebbe essere di diritto, purtroppo anche in Italia: cioè che le colpe individuali ricadano su figli, padri, mogli o fratelli. Heim si trova così privato di una fetta importante di soldi per il suo sostentamento, anche se gli restano gli investimenti fatti in Egitto e che gli garantiscono di sopravvivere. Gli aiuti della famiglia della moglie gli arrivano comunque anche se con sempre maggiore difficoltà. La prima volta che Aribert Heim era andato dal dentista egiziano Abdelmoneim El Rifai si era presentato come Alfred Buediger. Il rapporto tra i due uomini aveva assunto in breve tempo un carattere più personale e Heim aveva preso a frequentare la casa di Rifai e aveva conosciuto la moglie e il figlio Tarek. Quando andava a trovarli portava un dolce al cioccolato che era il preferito del bambino e si fermava a chiacchierare di storia e cultura araba con il suo amico. Rifai sperava che dopo tanti anni trascorsi in Egitto, “Alfred” potesse prendere la decisione di abbracciare la fede islamica. Intanto nella sua stanza d’albergo a Il Cairo, sopra piazza Mitan Ataba, Heim lesse e rilesse le testimonianze e le carte del processo che Steinacker gli aveva inviato. Per la seconda volta, dopo la prigionia inflittagli alla fine della guerra, si sentiva punito ingiustamente. L’anno precedente, nel 1978, era andato in onda uno sceneggiato, “Olocausto”, che aveva scosso l’opinione pubblica tedesca e fatto ascolti impressionanti. E la gente si mobilitava per manifestare contro i nazisti ancora in libertà e per quelli per cui poteva scattare la prescrizione. “Nessuna libertà per gli assassini”, scandivano in coro i manifestanti. Heim da anni ormai ragionava sul concetto di colpa. Al Cairo poteva stare con i suoi amici, anche fare investimenti, persino lavorare saltuariamente e continuare a stare sui campi da tennis, ma senza la famiglia e senza poter liberamente esercitare la sua professione di medico. Leggeva molto e ritagliava articoli su Cristo e Hitler, sulla spartizione della Polonia e nutriva un senso di profonda delusione sia per come la Germania trattava i suoi figli, sia per i due pesi e due misure che il mondo applicava nei giudizi. In particolare la sua attenzione era rivolta a due distinti episodi. Il primo era l’attacco condotto il 9 aprile 1948 da un gruppo paramilitare sionista contro il villaggio di Deir Yassin, che allora faceva parte della Palestina sotto protettorato britannico. L’Irgun e il Lehi avevano ucciso più di 200 arabi, donne e bambini inclusi e avevano fatto sfilare i prigionieri umiliati e picchiati davanti a tutti per le vie di Gerusalemme Ovest. Il mondo arabo era inorridito eppure il leader dell’Irgun era stato premiato dalla storia diventando primo ministro. Il secondo evento su cui si soffermava Heim era il massacro dei civili vietnamiti nel villaggio di My Lai del 1968. Nessuno era stata condannato tranne un ufficiale William Calley che si fece solo 3 mesi di carcere e poi il Presidente Nixon gli concesse una grazia parziale commutando la pena originaria all’ergastolo in 3 anni di domiciliari. Due pesi, due misure. Nel frattempo Wiesenthal continuava la sua opera di propaganda contro Heim: aveva fatto stampare migliaia di cartoline con l’immagine di un tedesco che sparava ad una donna con un bambino in braccio. “Questo non può mai cadere in prescrizione”, diceva il testo, in tedesco, francese e inglese.


Cap.16 Le false tracce in Venezuela e Spagna, e la figlia illegittima Waltraut Boser
Rudiger intanto era rientrato precipitosamente a Baden Baden dalla Danimarca: la nonna era caduta e si era rotta un femore. Si diceva in famiglia che l’anziana signora non stesse reggendo lo stress dello “scandalo Heim” e che fosse caduta scappando da ficcanaso che l’avevano seguita per fare delle domande fino a casa. Rudiger non capiva come i giudici avessero potuto sentenziare che il padre aveva ucciso centinaia di persone sulla base di testimonianze di persone che lo odiavano per principio. Era un modo di procedere “contrario allo spirito della Repubblica in cui viviamo” sosteneva. Scrisse una lettera al padre, sempre in codice, in cui gli disse che lo sosteneva ed era dalla sua parte. Concludeva con un “ti voglio bene”. Intanto il processo d’appello era stato rinviato da Ottobre a Dicembre 1979. L’avvocato Steinaker sosteneva che il suo cliente fosse stato condannato utilizzando norme che non esistevano quando era stato commesso il fatto, e contestava di fatto l’applicazione della retroattività della legge. Voleva un equo processo, mentre i giudici, sotto la spinta dell’opinione pubblica e della stampa prezzolata, gli avevano negato la richiesta di controinterrogare i testimoni ancora in vita e di portare testimonianze a favore dell’imputato. Il 17 Dicembre 1979 il tribunale confermò la sentenza precedente e la corte confermò anche l’ammenda di 510mila Marchi, una cifra immensa per quei tempi e stante la latitanza del condannato anche il sequestro dei suoi beni. Durante questi mesi Wiesenthal, sempre ossessionato dalla cattura di Heim, aveva cominciato a convincersi che anche il Dottor Morte come Eichmann e tanti altri, si nascondesse in Sudamerica. L’interpol aveva inviato una lettera confidenziale in cui sosteneva fosse in Venezuela, sotto mentite spoglie, con la nuova identità di Werner Gunther, ma la pista si rivelò falsa perché il signor Gunther era solo un insegnante di musica di origini polacche. Poi il cacciatore di nazisti decise di fare un viaggetto verso Ibiza, definita l’isola dei nazisti, ma anche lì nulla. Infine un informatore aveva consigliato di dare un occhio ad Alicante, ad un certo Dott. Umberto Hahn, un medico che abitava sulla costa mediterranea della Spagna. Abbagliati dalla assonanza dei nomi, Wiesenthal e il suo braccio operativo Aedtner, presero un altro granchio. Un filo però che legava il caso alla lingua spagnola e all’America latina esisteva davvero, all’insaputa ancora di Wiesenthal e Aedtner: la figlia illegittima di Heim, Waltraut Boser. Le speranze di Waltraut di diventare una campionessa di sci, lei che aveva ereditato il DNA del padre, adatto allo sport professionistico, si erano infrante dopo un brutto incidente che le procurò una frattura scomposta alla gamba con la fine dell’attività a 17 anni. Quindi Waltraut si era laureata in farmacia all’università di Innsbruck ed era andata a lavorare in Svizzera in una farmacia con clienti famose come Sophia Loren, che acquistava costose creme speciali e si faceva servire da lei perché parlava un buon italiano. A 34 anni un amico di Losanna le aveva presentato un giovane cileno, di cui si era innamorata. I due si erano sposati e trasferiti in Cile.

Waltraut Boser

Cap.17 Heim, la conversione all’Islam e una nuova identità: Tarek Hussein Farid
Il 16 Febbraio 1980, alle ore 13, il sessantacinquenne austriaco si presentò davanti ai funzionari della grande Moschea e dichiarò: “Non c’è altro Dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta” accettando l’Islam come propria religione e diventando per tutti Tarek Hussein Farid. Scelse Tarek perché così si chiamava il figlio del suo amico, il dott. Rifai, mentre Hussein era il nome dell’Imam che celebrò la cerimonia di conversione. Ora persino il suo conto in banca era sotto il nome musulmano e tutti lo avrebbero chiamato così. Ora che non disponeva più degli affitti di Berlino, Heim doveva fare economia, ma non fu solo per questo che si trasferì a Port Said: a spingerlo fu anche una questione di sicurezza. Più si allontanava dal centro città, più diminuiva il numero di occidentali in circolazione e quindi la possibilità di essere riconosciuto. Si trasferì così all’albergo Kasr el-Madina in un monolocale che gli costava solo 7 sterline egiziane al giorno. La stanza aveva un pavimento di ceramica e un tappeto insignificante, un letto e un piccolo guardaroba, più un tavolo. C’era un fornelletto da campeggio per cucinare e il bagno era in comune con gli altri ospiti. Il bene più prezioso, oltre alla libertà, era una radio Grundig a onde corte con la quale ascoltava le stazioni viennesi. Nel quartiere si era spacciato per uomo d’affari, aveva modi impeccabili e non dimenticava mai di salutare in modo formale dicendo “salaam alaikum”. Giocava con i bambini della zona, e sul tetto dell’albergo aveva montato una rete da tennis per insegnare ai figli del proprietario dell’albergo, in particolare a Mahmoud Doma, il più piccolino. Frequentava anche il circolo universitario del tennis, e lì dava lezioni private quando capitava. Mahmoud Doma e suo padre adoravano quell’austriaco di fede islamica, sempre gentile e disponibile. Con la sua passione per lo sport suscitava in tutti gli abitanti dell’albergo e del quartiere sorrisi affettuosi. Nessuno in quel momento avrebbe mai potuto sospettare del passato del medico di Mauthausen. Più sereno, Aribert Heim invitò suo figlio Rudiger in Egitto e i due passarono un po’ di tempo insieme: Rudiger era sempre più convinto dell’innocenza del padre, assistendo ad un simpatico vecchietto che parlava in arabo e faceva divertire i bambini e i ragazzi. Non c’era tennista del Cairo che non volesse prendere qualche lezione da Aribert Heim.

Il certificato di conversione all’Islam di Heim

Cap.18 La scoperta del cadavere di Mengele e il programma tedesco Chi l’Ha Visto.
Il 31 Maggio 1985 la polizia della Germania Ovest perquisì la casa di Hans Siedlmeier, un confidente della famiglia Mengele, e trovò un indirizzo di Sao Paulo in Brasile, che avrebbe potuto essere connesso con il capo nazista più importante dopo Adolf Eichmann. Così Wiesenthal trovò, invece del criminale, la sua tomba: Mengele era annegato il 7 febbraio 1979. Tutti i cacciatori di nazisti furono messi in imbarazzo da questa scoperta: addirittura Wiesenthal in persona aveva dichiarato di sapere che Mengele viveva su un Yacht ancorato davanti ad una isola greca e lo avrebbero catturato presto. Il ritrovamento del cadavere di Mengele non fu l’unico smacco subito da Wiesenthal in quel periodo. Ad offuscarne l’immagine contribuì anche lo scandalo che coinvolse l’ex segretario generale dell’ONU Kurt Waldheim, quando uscirono le notizie che Wiesenthal stesso aveva insabbiato delle indagini sul suo passato di collaborazionista del Terzo Reich. La potenza però del cacciatore di ebrei e la sua influenza portarono il programma televisivo “Aktenzeichen XY…Ungelost”, una sorta di primordiale Chi L’ha Visto, ad interessarsi nella stagione 1986 ad Aribert Heim e i riflettori si riaccesero sul più braccato criminale nazista mai catturato. Il conduttore, il famoso Eduard Zimmermann descrisse i crimini attribuiti ad Heim, incoraggiando chiunque avesse notizie a contattare il programma.

L’albergo al Cairo dove alloggiava Aribert Heim

Cap 19. Aribert Heim ha il cancro
Mentre gli investigatori brancolano letteralmente nel buio, Rudiger Heim nella primavera del 1990 giunge al Cairo con 20mila Marchi in banconote da 100 e 500, infilati nella tasca anteriore dei jeans. Il messaggio di zia Herta era urgente: “vai in Egitto, tuo padre è in ospedale ed è grave. Porta i soldi.” Rudiger nel frattempo era stato perso di vista dalla polizia, dalla Danimarca si era trasferito ad Avignone in Francia dove aveva aperto un ristorante con Tano Pisano. A quel tempo la tecnologia non permetteva di seguire a distanza, servivano segugi in carne ed ossa e non era possibile utilizzare risorse umane solo per pedinare il figlio di un latitante, che per altro girava il mondo. E andare all’estero con tanto denaro liquido era una cosa normale, non destava sospetti. Rudiger non fu perquisito né alla partenza dall’Europa né all’arrivo in Egitto. Al Cairo alloggiò come al solito allo Scarabee Hotel e la mattina dopo l’arrivo si recò al Misr International Hospital, nel quartiere di Dokki, dove abbracciò il padre che non gli disse nulla dei suoi problemi di salute ma solo che era stato operato e era andato tutto bene. Fu soltanto quando riuscì a parlare con un medico che Rudiger seppe del tumore al retto. Si prospettavano tempi difficili, come chemioterapia e radioterapia, e il figlio di Aribert decise di rimanere al Cairo. Cucinava quello che poteva con gli ingredienti offerti dal mercato locale. Il lavoro svolto nel ristorante ora gli tornava utile. Un giorno per andare all’Ospedale per le terapie, padre e figlio sbagliarono vagone della metropolitana, entrando in quello riservato alle donne. Le guardie in divisa nera li fermarono con l’intento di arrestarli, ma la fortuna bussò ancora una volta alla porta di Heim. Uno dei poliziotti conosceva “Tarek Hussein”, suo figlio era allenato a volte dall’anziano signore convertito all’Islam e lasciò perdere. Padre e figlio in quell’anno seguirono insieme il campionato del mondo di calcio che si svolgeva in Italia e che vinse proprio la loro amata Germania. Esultarono insieme abbracciandosi quando al minuto 84 della finale Andreas Brehme insaccò il rigore della vittoria contro l’Argentina, e in quell’abbraccio c’era molto di più di una semplice felicità legata al calcio.

L’ultima foto di Heim

Cap.20 Gli Dei arrivano prima degli uomini
Nel 1993 uscì “Schindler’s List”, il film di Steven Spielberg che aveva riscosso un successo mondiale e aveva vinto l’Oscar. Il mondo era ancora affascinato e spaventato dalle storie che raccontavano l’Olocausto. Nel 1996, ad Ottobre, la televisione tedesca aveva mandato in onda uno speciale che si intitolava “medici senza coscienza”: era un documentario sui medici nazisti e non poteva mancare il protagonista, Aribert Heim. Passano gli anni e nonostante gli sforzi le polizie di tutto il mondo non riescono a rintracciare Heim. Arriva così l’11 Settembre 2001, che con gli attacchi terroristici alle torri gemelle, rivoluziona il modo di investigare. Vengono inasprite ovunque le norme di trasferimento di denaro. Le autorità non cercano più vecchi nazisti in esilio ma sperano di individuare modelli irregolari di attività finanziarie pronte a sostenere attività terroristiche. La Western Union tedesca segnalò una strana serie di trasferimenti di denaro avvenuti tra il 1 Ottobre 2002 e il 18 agosto 2003. In meno di un anno un certo Rudiger Heim aveva spedito 88.147 euro dalla Germania alla Spagna. Le somme, tutte tra i 900 e i 2500 euro, erano indirizzate alle stesse due persone: Gaetano Pisano e sua moglie Blandine Pellet che risiedevano sulla Costa Brava. La polizia non impiegò molto a capire che il terrorismo non c’entrava affatto. Era emersa una nuova pista per la cattura del Dottor Morte, dopo oltre 40 anni dalla sua sparizione. Il 20 settembre 2005 Wiesenthal morì nel suo letto non prima di aver nominato suo erede nella caccia ai nazisti, Efraim Zuroff. Anche l’altro investigatore che diede la caccia ad Heim per decenni, Alfred Aedtner era uscito di scena, morto nel 2005. In quell’anno i giudici autorizzarono di nuovo le intercettazioni dei familiari di Heim, in particolare di Rudiger: infatti erano emersi altri trasferimenti di denaro verso Pisano e Pellet addirittura di 289.617,17 euro tra il 2000 e il 2004. Questo lasciava pensare che Aribert fosse probabilmente vivo e quei denari servissero per la sua latitanza. Una conversazione intercettata tra Rudiger e suo fratello Christian in particolare allarmò gli inquirenti: Rudiger riferendosi alle indagini disse “Die wissen gar nichts”, cioè “non sanno niente”. Appena rientrati in Spagna dopo una mostra di Tano Pisano, il pittore stesso e la sua compagna Blandine Pellet furono svegliati alle 4 di mattina e portati in caserma per essere interrogati. I due caddero dalle nuvole, per loro quei soldi erano solo i proventi delle vendite dei quadri al loro mecenate Rudiger Heim, ma la stampa ci ricamò sopra sbagliando, tanto che anni dopo Gaetano Pisano detto Tano ricevette un indennizzo di 60mila euro per le calunnie ricevute dai giornali spagnoli che avevano messo la sua faccia in prima pagina insieme ad Aribert Heim, separate da una immagine delle vittime di un lager. I due artisti dimostrarono subito alle autorità spagnole la loro estraneità alla vicenda ed uscirono di scena, mentre l’unità speciale incaricata di rintracciare Heim provò a seguire l’ultima traccia rimasta, quella della figlia illegittima Waltraut Boser, e che risiedeva ormai da anni in Cile. Del resto il Cile aveva fornito riparo a Walter Rauff, l’uomo che aveva ideato i furgoni mobili per uccidere gli ebrei con il gas. Gli agenti bussarono alla sua porta, ci fu un gran rumore mediatico ma anche questa pista fu inutile quando nel 2006 non si trovò assolutamente nulla lì in Cile che riconducesse ad Aribert. La figlia non ne sapeva davvero nulla. La svolta arriva nel 2008 quando un confidente mai identificato segnalò ad una giornalista, Souad Mekhennet, tedesca di madre turca e papà marocchino, il luogo dove si era nascosto per anni Aribert Heim. Le prove che quello era il nascondiglio di Heim furono rintracciate nel magazzino di un negozio di abbigliamento di Nasr City, nella capitale egiziana, appartenente ai fratelli Doma, un locale pieno di jeans, gonne e camicie da donna. Erano in una borsa di cuoio con le fibbie arrugginite. La borsa conteneva centinaia di carte, le ricevute di un albergo di Alessandria, le memorie scritte a mano da Heim, fotografie in bianco e nero, ricette mediche. Un referto medico recitava: “carcinoide rettale” ed era stato redatto dal dott. Mohsen Barsoum che riconobbe subito il suo paziente da una foto e dichiarò che non c’era stato nulla da fare. Il male era incurabile.
Rudiger era tornato in Egitto nel 1992 per quella che sapeva sarebbe stata l’ultima visita. Telefonava regolarmente al padre ricorrendo agli apparecchi a gettone per non essere intercettato e prendendo le solite precauzioni. Aribert ormai non usciva più dal Kasr el-Madina e ogni giorno veniva un infermiere a controllarlo e cambiargli la sacca. Mahmoud Doma lo chiamava Zio Tarek e gli voleva bene come fosse stato suo papà vero. Non avrebbe mai potuto dimenticare quelle lezioni appassionate di tennis, le risate, gli abbracci e gli insegnamenti di una persona che gli aveva voluto tanto bene pur non essendo suo parente. Aribert alias Tarek con suo figlio e Mahmoud passavano molto ore al giorno guardando le Olimpiadi di Barcellona e quando alla televisione non c’era lo sport seguivano la guerra in Bosnia. Nel corso delle gare olimpiche il male divenne così violento che pian piano Aribert Heim non riusciva più nemmeno a sostenere qualche piccola conversazione e il 9 agosto 1992 si tennero mano nella mano in silenzio durante la cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici. Poche ore dopo Aribert Heim smise di respirare. Mahmoud con tutta la famiglia Doma piangeva. Rudiger era commosso e allo stesso tempo orgoglioso del padre.

la borsa con le fibbie arrugginite contenente i documenti di Heim

Aribert Heim è morto da uomo libero: Allah e Dio che lui abbracciò nello stesso modo lo hanno sostenuto e difeso fino alla fine, quando era giunto il suo giorno e hanno preferito la giustizia divina a quella umana che non è mai riuscita a prenderlo.
Questa storia non ha un lieto fine né un epilogo consolatorio. Se si trattasse di un film Aribert Heim sarebbe stato catturato da Alfred Aedtner dopo un inseguimento per tutto Il Cairo, e il suo arresto sarebbe stato annunciato da Wiesenthal in persona. Questo però non è un film e per molte persone coinvolte questa storia ha avuto effetti che vanno ben al di là della morte del protagonista e della sua rivelazione pubblica. A noi insegna che la giustizia degli umani è fallace, spesso di parte e quasi sempre ipocrita e che ogni vita, anche quella più negativa o entusiasmante merita di essere vissuta.
MashAllah. Come Dio ha voluto.

Alessandro Zijno